Una delle caratteristiche dell’attuale ideologia dominante è l’aver confuso e sovrapposto i significati di «vero» e «verosimile». E si è progressivamente affermata una qualche tolleranza rispetto a ciò che sconfina nella menzogna.

Quest’ultima, non necessariamente, è la pura e dolosa contraffazione della realtà. Può essere, semplicemente, il ricorso alle omissioni o alla rappresentazione di comodo dei fatti. Temi trattati in profondità da Franco Rositi (2014, «I valori e le regole»), per chi volesse approfondire. La riflessione ben si adatta alla più modesta questione del canone Rai.

Infatti, dopo un anno e mezzo di annunci e una decisione formale assunta dalla legge di stabilità 2016, varata a fine dicembre, qualcosa proprio non quadra.

Riassumiamo.

Il canone è un’imposta sul possesso degli apparecchi, secondo una consolidata giurisprudenza che ne ha sempre sottolineato la particolare natura. La recente normativa ne ha dirottato il pagamento nella bolletta elettrica. Cento euro in luogo di 113,5; con la previsione di in incremento sostanzioso delle entrate rispetto all’evasione altissima registrata con i vecchi bollettini, che sfiorava il 30%.

Ma perché dopo gli strilli (e se ne parla da anni, essendovi state proposte di legge al riguardo nella passata legislatura) e una così lunga incubazione si pagherà la prima rata -70 euro- solo a luglio?

Tra l’altro, i gestori elettrici dopo l’avvenuta liberalizzazione sono circa quattrocento. Sono tutti d’accordo? E la procedura per chi si vuole autoescludere dal pagamento perché non ha la televisione è semplice o infarcita di latinorum burocratico? O per chi ha la casa coincidente con un piccolo esercizio commerciale? E i cosiddetti canoni speciali, dove si annida la parte maggiore dell’evasione, non sono toccati dalle modifiche?

Gli stessi spot trasmessi dalla Rai sembrano infondere tranquillità. E allora come mai se ne parlerà solo in estate?

[do action=”citazione”]Insomma, la versione ufficiale ha diversi buchi ed è contraddittoria.[/do]

Se il quadro fosse determinato nei vari aspetti, non ci sarebbe motivo di partire in estate. Non sarà che l’incrocio tra le banche dati è complesso e non facilmente perseguibile? La prova provata è l’assenza del decreto ministeriale previsto dalle legge di stabilità, senza il quale la stessa base giuridica dell’operazione non è solida.

Sono in ballo quasi due miliardi di euro, dentro cui si devono calcolare pure i fondi previsti – ad esempio- per le emittenti locali.

Parlare di servizio pubblico senza chiarezza sulle risorse diventa un’esercitazione retorica farisaica. Appunto, verosimile magari: non vera.

Tra l’altro, è prossima la scadenza della concessione dello stato.

A maggio si verrà a «reificare» l’annoso dibattito sulla natura dell’azienda pubblica, nient’affatto risolto dalla recente (contro)riforma, che ha incoronato l’amministratore delegato di espressione governativa, senza affrontare il significato del concetto di «pubblico» nell’era delle molteplici piattaforme tecnologiche.

Se ne parlerà in un apposito decreto delegato. Al solito. Eppure, proprio il canone sarebbe stato l’occasione per ridefinire principi e missioni, vincolandoli ad un preciso decalogo di compiti, dando voce ai cittadini attraverso una consultazione pubblica, come si usa fare con la Bbc nel Regno unito.

Il rischio è che il governo, arrivato impreparato alla scadenza, abbia difficoltà a trovare ora soluzioni certe. E tra gli scogli della navigazione c’è il pericolo del naufragio.

La «rivoluzione» finirà come il Tecoppa del teatro milanese?