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«Cannibal Holocaust», cuore di tenebra del cinema italiano

«Cannibal Holocaust», cuore di tenebra del cinema italianoUna scena da «Cannibal Holocaust»

Cinema Nelle sale in versione restaurata il «titanico» film di Ruggero Dodato del 1980, girato in Amazzonia. La violenza del vedere, la censura, l’equiprobabilità tra «vero» e «falso»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 agosto 2023

Di Cannibal Holocaust si parla da sempre per i motivi sbagliati, che poi, a ben vedere, sono quelli giusti. Ruggero Deodato, alla fine degli anni Settanta, si spinge il più lontano possibile per un cineasta, creando una sorta di mostro – in senso etimologico – su ciò che sono i limiti del vedere e del filmare. Cannibal Holocaust è un film teorico suo malgrado, anche perché Deodato ogni qual volta che tentava di spiegare la furia dispiegata nel film forniva spiegazioni sociologizzanti che non convincevano mai, lasciandone così inviolata l’aura di delirio e pericolo. In fondo, Cannibal Holocaust non è affatto più estremo di Emanuelle in America di Joe D’Amato, anzi. Eppure, è Cannibal Holocaust la pietra dello scandalo. Per anni, subito dopo la sua distribuzione, censura e relativi guai giudiziari, del film si è parlato come di una leggenda. A memoria si ricorda un magnifico scritto di Lucas Balbo sulla rivista inglese «Shock Xpress». Verso la fine degli anni Ottanta iniziano a circolare Vhs più o meno integrali e ogni volta si tornava a parlarne per i suoi aspetti più evidenti che sono ovviamente quelli per i quali lo si vede ancora oggi. Senza contare che ogni volta che un nuovo supporto audiovisivo appariva, il film di Deodato inevitabilmente faceva la sua sulfurea apparizione, basta vedere le innumerevoli edizioni dvd apparse ovunque nel mondo.
Ora il film ritorna persino in sala, per tre giorni ma – per esempio – nel Lazio e in Sicilia nessun cinema lo tiene in cartellone. Eppure, sarebbe da riscoprire proprio al cinema la sua tenuta feroce.
Ruggero Deodato era un cineasta assoluto. Un vero «animale» da set. Era solito dire che Roberto Rossellini gli aveva insegnato la «realtà» e Sergio Corbucci la «crudeltà». Deodato sapeva istintivamente come si muove un set. Tutto il set. Godeva del processo di lavorazione del film al contrario di quanti soffrono il momento delle riprese per rifugiarsi nel cesello del montaggio o dell’arrangiamento della post-produzione. A Ruggero piaceva il set. E sapeva anche essere «cattivo».

ED È DA QUESTO piacere intenso – che sul set di Cannibal Holocaust trova il suo apogeo – che sorge la forza di questo film così disturbante. Al di là degli aneddoti personali, è tutta l’impresa del film – a Leticia e dintorni – a offrirsi come un cuore di tenebra del cinema italiano e non solo. Deodato si spinge – magari del tutto inconsapevolmente alimentato solo dal piacere nero di un set assolutamente impensabile oggi – in un’area della creazione dove i riti di sangue di Nitsch s’intrecciano con il documentarismo alla Jacopetti e l’avventuroso esotico italiano che da Salgari giunge all’erotico delle Emanuelle.

Legittimo che Cannibal Holocaust possa non piacere e sarebbe ipocrita tentare di riscattarne la crudeltà arrampicandosi sugli specchi della teoria per giustificarne eccessi e violenze assortite. Il punto è che la visione di Deodato coincide con la sua ferocia e brutalità e la riflessione sul dispositivo di riproduzione è parte integrante di questo processo. Con una formula si potrebbe affermare che il limite dell’eccesso è l’eccesso del limite. Cannibal Holocaust esiste perché è eccessivo. Il titanismo estetico di Deodato sfocia nella hybris dionisiaca, il suo gesto crea un mondo e una esperienza della visione che prima semplicemente non esistevano. Il film trascende lo stesso Deodato che si ritrova trafitto dalla sua visione. L’epifania di Cannibal Holocaust trasfigura prima di tutti il regista convinto che il set fosse la reinvenzione della vita (e delle sue crudeltà) con altri mezzi. Il film diventa così il resoconto di un progetto che trascende le «intenzioni» del suo creatore. Ed è questo lo scandalo – il non detto – del film. Non le morti documentarie di animali che altrove sarebbero rimaste fuori campo. Certo: è evidente la ferocia con la quale gli «attori» sono spinti al di là dei loro limiti (forse solo il primo Makavejev si è spinto tanto lontano) e si percepisce l’inebriamento dionisiaco di un gruppo di lavoro che sa di viaggiare lungo sentieri mai battuti prima. La volontà di scioccare è dimenticata perché regista e troupe sono ormai su un’altra dimensione: dove tutto potrebbe accadere. E quel che si vede lo si percepisce come una possibilità della quale – fortunatamente – a noi giunge solo la visione documentaria della registrazione.
Ruggero Deodato era un incantatore arcano. Aveva vissuto il cinema, e lo aveva amato. Il fare lo intossicava (irresistibili i suoi racconti dai set di Totò, per dire). Cannibal Holocaust è il suo gesto più radicale. Le foto dal set, dove a torso nudo e Ray-Ban assomiglia a un colonnello Kurtz di Cinecittà, gettandosi in pozze d’acqua infestate da vibrioni e piranha, spingendo Sergio D’Offizi a inventare del finto found footage (se ne ricorderà Woody Allen per Zelig), Vincenzo Tomassi a creare una vera propria estetica nuova del montaggio alternando «vero» e «falso» e tenendo tutto sul crinale dell’equiprobabilità rimandando allo spettatore la decisione su dove posizionarsi. E poi – certo – la musica di Ortolani sulle cui note il feretro di Deodato è stato accompagnato nella chiesa di San Roberto Bellarmino dove fra i pochi accorsi (oltre a Lamberto Bava e Sergio Martino) c’era Renzo Rossellini, l’amico di sempre, che lo aveva presentato a Roberto.

PUÒ NON PIACERE Cannibal Holocaust. Eppure, oggi questo film – e non un altro – si offre come il punto più feroce dove la riflessione sul dispositivo di riproduzione incontra il desiderio di rivelare un altro reale possibile inoltrandosi in un territorio dove finzione, realtà e documentario s’intrecciano indissolubilmente.
Ruggero Deodato ha rischiato in prima persona e ne ha pagato le conseguenze. Un uomo di spettacolo sfacciato e appassionato che ha attraversato lo specchio ossessionato dalle possibilità di attingere ai limiti del visibile. Il vedere e la violenza erano intrecciati per lui, e la verità bruciava perché bisognava toccare la materia della vita. Negli anni ho imparato a conoscerlo, Ruggero. Non bene come Manlio Gomarasca o Davide Pulici, ma le sue storie sono rimaste nella testa e nel cuore. E l’ultima volta che ci siamo parlati rievocava le sue avventure nelle Filippine, dove Imelda Marcos gli aveva messo a disposizione mezzi e uomini per realizzare I predatori di Atlantide e guarda caso, Richard Somes anni dopo ci racconta che per il suo Topakk ha richiesto proprio quei tecnici filippini che avevano lavorato sul set di Deodato (e Mattei, ovviamente).
Può non piacere, ma non si potrà mai capire una certa idea di cinema italiano senza Cannibal Holocaust. E questo film sarà sempre nell’alveo degli oggetti unici, irraggiungibili, impensabili. Un vero «olocausto cannibale». Vedere o non vedere, è sempre questo il dilemma. E Ruggero Deodato – ferocemente, inconsapevolmente? – lo aveva capito meglio e prima di molti.

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