Dei molti titoli che rimbalzavano nel toto-festival i giorni scorsi ne sono rimasti alcuni, stavolta Thierry Frémaux ha spiazzato (un po’) il pubblico mondiale degli addetti ai lavori in attesa (spasmodica) di conferme o di smentite. Del resto c’era da aspettarselo sin dalle prime battute della conferenza stampa di ieri con cui è stato annunciato il programma del Festival di Cannes 2018, edizione numero 71 – ci saranno integrazioni nei prossimi giorni, probabile il ritorno della persona non grata Lars Von Trier con The House that Jack Built.

Il delegato artistico, al tavolo insieme al presidente Pierre Lescure, dopo i ringraziamenti all’equipe e a tutti coloro che hanno sottoposto i film, ha annunciato un’edizione caratterizzata da «un forte rinnovamento», con «nomi di cui finora non si era mai sentito parlare». Opere prime, molte nella sezione Un Certain Regard, il concorso parallelo, ma anche in corsa per la Palma d’oro, scelta che ribalta gli iter tradizionali – gli esordi alla Sémaine o nelle sezioni non ufficiali o in festival meno su vasta scala – e spesso un rischio per i film sovraesposti ai giudizi.
LItalia mantiene i pronostici, in concorso con Dogman di Matteo Garrone (in sala il 17 maggio) e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, tra quei registi «cresciuti» sulla Croisette – entrambi già premiati a Cannes. Nel Certain Regard c’è invece Euphoria, la nuova regia di Valeria Golino, anche questo un ritorno – era stata sempre al Certain Regard con Miele – due fratelli riavvicinati da una situazione difficile (sono Valerio Mastandrea e Riccardo Scamarcio). «Clamorosamente» è assente l’immancabile Paolo Sorrentino – farà anche questo parte del rinnovamento? – ma come ha spiegato Frémaux la parte 1 di Loro uscirà in Italia prima del festival, forse ci sarà la seconda?                                                   

Ritorni (annunciati) quelli di Jia Zhang-ke (Ash is Purest White), Kore-Eda (Shoplifters), e nella selezione ufficiale Stephane Brizé (En guerre) dove le candidature che circolavano sono state spiazzate. Niente Pierre Schoeller, Un peuple et son roi né il nuovo film di Olivier Assayas (E-book), Bruno Dumont col sequel di P’tit Quinquin, il Jacques Audiard «americano» – The Sisters Brothers quest’ultimo sembra per ragioni strategiche di uscita che lo spingono a un mercato autunnale – Mia Hansen-Løve con Maya girato a Goa.

C’è invece Christoph Honoré in gara dieci anni dopo Les Chansons d’amour con Plaire, aimer et courir vite, una storia d’amore gay negli anni Novanta dell’Aids e del brit-pop, la «new entry» Eva Husson (Bang Gang) con le Filles du soleil protagoniste Golshifteh Farahani e Emmanuelle Bercot combattenti nell’esercito curdo, il «misterioso» A genoux les gars di Antoine Desrosières. Ma soprattutto in concorso c’è Jean Luc Godard, omaggiato nel manifesto di questa edizione – il bacio tra Belmondo e Anna Karina in Il bandito delle 11 – con Le livre d’image. Un evento.
Si aspetta poi Jafar Panahi – «Abbiamo chiesto al governo iraniano un permesso» ha detto Frémaux – che il governo iraniano ha condannato a non viaggiare e a non fare più film, ma lui continua a girarne, prova ne è questo Three Faces.
Il cinema americani in competizione è rappresentato da David Robert Mitchell (It Follows) col thriller pop Under the Silver Lake, e Spike Lee con BlackkKlansman, la storia di un poliziotto nero che negli anni ’70 si è infiltrato nel KKK mandando il collega bianco (Adam Driver) alle riunioni del Klan.
L’impressione però al di là dei singoli titoli – spesso determinati da strategie distributive, il nuovo film di Richard Linkalater Where’d You Go Bernadette in America esce in ottobre non conviene un passaggio a Cannes meglio il doppio Venezia-Toronto, probabilmente lo stesse vale per The Beach Bum di Harmony Korine – è che il festival, che continua a raccontarsi come il più grande al mondo, mostra cedimenti «strutturali», e certo non li risolveranno il divieto ai selfie sul «tappeto rosso» o la nuova griglia delle proiezioni stampa in contemporanea a quelle ufficiali – per evitare che gli artisti quando salgono «Les Marches» abbiano avuto una cattiva eco del loro film – cosa che rende ancora più marginale il lavoro dei giornalisti.

C’è l’annosa questione di una programmazione divisa per «generi«, coi documentari sempre in Séances Spéciales – tra questi il nuovo Wang Bing sulla Rivoluzione Culturale, Les Ames Mortes, otto ore e quindici minuti – che appare ormai stonata in rapporto al movimento del cinema mondiale. Così come limitare il concorso ai soli film con una distribuzione francese: non dovrebbe un grande festival offrire possibilità di lancio proprio a quegli autori che non ne hanno?

Si mette fuori Netflix in difesa della sala e poi tra le ragioni avanzate per spiegare la decisione sui selfie c’è che le facce anonime (il pubblico) sul red carpet sono prive di interesse – senza quelle facce anonime però le suddette sale sarebbero vuote. Dunque?
Ted Sarandos, il capo di Netflix, che non è un mecenate, ha dichiarato in un’intervista a «Variety» che Frémaux segue principalmente le logiche degli esercenti. Vista l’esclusione della piattaforma dal concorso ha ritirato tutti i suoi titoli, Roma il ritorno in Messico di Cuaron Norway di Paul Greengrass, sul massacro di Utoya, Hold the Dark di Jeremy Saulnier che prenderanno altre strade. È un danno per il festival, e una dimostrazione di debolezza rispetto a una realtà nuova affrontata opponendovi gli steccati del mercato nazionale .

Eppure Frémaux parla ancora di «un dialogo fruttuoso» con Sarandos pure se è evidente che dietro le formulazioni di circostanza il «gran rifiuto» di Netflix ha creato non poco fastidio. Ieri ha spiegato che la trattativa riguardava due titoli: uno che il Festival voleva in concorso, di cui Frémaux non fa il nome (Roma?), e – fuori concorso – The Other Side of the Wind di Orson Welles. «Per il film in concorso andava rispettata la regola della sala, che abbiamo dovuto ribadire l’anno scorso ma che esiste dagli anni ’50, e c’erano distributori francesi pronti a comprarlo. Netflix non ha accettato» spiega addossando la colpa alla piattaforma, dimenticando di menzionare che, come l’anno scorso, il problema per Netflix non è mostrare i film in sala ma l’attesa di 36 mesi che per legge in Francia devono intercorrere fra l’uscita di un titolo nei cinema e il suo passaggio al mercato dell’home video.

Ma il vero colpo è la perdita del film incompiuto, e portato a termine dopo 46 anni, del regista di Quarto potere: «Welles è stato presidente di giuria, giurato e vincitore della palma d’oro con Otello: il posto del suo film era a Cannes». Quasi un dispetto insomma quello di Sarandos, che non ha fatto un «beau geste» – come dice Lescure. Evidentemente «il più grande festival del mondo» ha scoperto di avere meno potere contrattuale di quanto pensasse. Appunto.