Come si conviene all’argomento plurale di cui tratta – Labirinti – anche quest’opera è complessa e complicata. Terza edizione aggiornata da quella del 2013, nata per illustrare l’impresa del Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci, ora accompagna anche la mostra che vi è aperta fino al 26 settembre (Rizzoli, pp. 224, e 60,00). Nella sua forma smagliante e compatta di libro di pregio, racchiude e insieme rinvia, all’infinito, il sogno e l’immaginazione realizzata dell’archetipo più misterioso, inquietante e viscerale che ha abitato l’uomo. Ciò è quanto ha seguito Ricci sul modello del principe di Ligne, che reinterpretava «il faut coltiver notre jardin» – in modo tanto ideale quanto pragmatico. Il sogno compatto, rilegato nella confezione più elegante, soddisfa e insieme tenta, come un’opera che si definisce e non si definisce, che si chiude, e non è un’opera chiusa.
Tento di esprimere questa sensazione di «apertura», che non è data dalla sequenza ordinata dei testi né dal loro carattere: l’introduzione di Umberto Eco, l’intervento dello stesso Ricci, che firma il libro, il saggio di Giovanni Mariotti, e il dizionario mitologico di Luisa Biondetti, scanditi rigorosamente dalle immagini più belle e importanti dei labirinti, dai primi segni grafici incisi sulle pareti delle caverne, su tavole di terracotta, alle loro ultime metamorfosi, in ogni implicazione del web. Essa viene da qualcosa di più profondo, che probabilmente non è suscitato nemmeno dalla materia stessa del Labirinto, dalla sua idea fissa e sfuggente, a riflessi molteplici, che Ricci distingue nelle tre forme classiche, tutte univiarie, di quello cretese a sette spire; del labirinto romano, con angoli retti, suddiviso in quartieri intercomunicanti; del labirinto cristiano a undici spire (e tra esse sceglie la seconda, modificandola per il suo, a forma di stella).
Anche quando i labirinti non sono univiari, a senso unico come le viscere, ma multiviari come i sistemi stellari e quelli mitici, rendendo lo spaesamento più che inquietante; e perfino quando ogni via di sbocco è un muro cieco, un’apertura falsa, una prospettiva impossibile, un gioco di specchi, un ritorno allo stesso punto, come negli anelli di Gödel ed Escher, possiamo sentirci angosciati, ma sappiamo che si tratta di una condizione visiva e sensoriale, che riguarda altre dimensioni, e appunto il sogno. Se dal Manierismo il labirinto multiviario è un trionfo dell’arte, dell’artificio, dell’artificiale, le categorie dello spazio si alleano con quelle del tempo, e del suono, per sperderci nella vertigine dell’infinito: nella sfera dell’universo effroyable, il cui centro sta dappertutto, e la circonferenza in nessun luogo, abisso che spaventa Pascal (e poi, più dolcemente, in ivresse, Rousseau, e, come mare, Leopardi); nella fuga musicale delle note armoniche di Bach. Non che queste collaborazioni nascano così tardi. Sono presenti da sempre, nei meandri psichici, nelle circonvoluzioni del cervello, che gli assomiglia; nella natura che le contiene: la dea velata, l’Iside notturna, la dea degli enigmi e delle opposizioni, che gioca all’infinito con le forme (qualunque cosa sia questo gioco inarrestabile), che reinventa e moltiplica, e che gli uomini si sforzano di svelare, lacerandone un velo dopo l’altro.
Eco, che nel Nome della rosa, secondo Mariotti, dà del Labirinto il modello asimmetrico meno imperfetto, dichiara in pieno esprit de géometrie: «Se l’immagine del labirinto ha una storia millenaria, questo significa che per decine di migliaia di anni l’uomo è stato affascinato da qualcosa che in qualche modo gli parla della condizione umana o cosmica». Attratto com’è dai misteri e dagli enigmi, spesso non resiste alla tentazione di domarli come animaletti indocili, possederli in un perenne gioco classificatorio, che si chiude in una biblioteca, in un’enciclopedia, in un gioco di scacchi, in una «enigmistica». Ma cosa succede se la geometria passa dall’enigmistica alla clarté e al nitore estetico e intellettuale di uno stile per niente medievale-moderno? se esso è lo stile «neoclassico», forma apparente del finito che nasconde l’infinitamente mosso Laocoonte?
Franco Maria Ricci lo ha adottato a emblema. Quella nobile semplicità e ferma grandezza che ha scelto nei caratteri di Bodoni, nella propria grafica a contrasto sul nero, in molte opere collezionate, fra cui Canova, Thorvaldsen, Bosio, Bartolini, più che nascondere un perturbante sotterraneo – familiare a romantici classicheggianti e a romantici medievizzanti – è la divisa di un puer dalla fresca, vivace animazione, curioso di tutto, innamorato di mille possibili forme, per il quale il Labirinto le simboleggia nel serpente dei libri ideati, nella collana della rivista «FMR», nell’incontro fatale con Borges e con i suoi labirinti letterari, Giardino dei sentieri che si biforcano, o Aleph, o Casa di Asterione con gli specchi, o deserto; e per cui ha scelto, come il mercurio che va fissato, una veste e una dimora stabile, in modo che il lapis, l’opera, abbia una durata.
Insieme alla moglie Laura Casalis, futura dapuritojo potinija, la Signora del Labirinto, stabilisce la terra degli avi, il cotto dei suoi mattoni, il più flessibile e veloce dei vegetali, il bambù, non il bosso, né il carpine classici, e una serie di condizioni che siano insieme solide e leggere, aeree e mistiche (intendo misteriose per via del rapporto con la terra), per indicare e fare fruttificare una invenzione geniale e audace. Racconta com’è nata in lui da lontano, quando era giovane geologo, l’immagine del labirinto nelle grotte. Essa ritornava in occasioni come di destino. Poi, l’ha resa aedes e costruita in monumentum, con le parti profane rettangolari e la sacra piramidale, disegnandola prima con Davide Butto, quindi nelle strutture architettoniche con Pier Carlo Bontempi. Perfino pensandola aperta oltre le proprie terre di Fontanellato: quasi una visione, perché i bambù entrino a fare parte del paesaggio della pianura del Po, magari mascherando con le loro canne delicate, «certi disadorni capannoni industriali che sfilano tristemente ai lati di strade e autostrade».
Se Ricci impagina un labirinto come disegna la pagina di un libro, con la stessa proprietà ed eleganza, ecco da dove viene la sensazione di aperto: da quella ariosità che struttura e lancia in idee avventurose. Non troppo differentemente Mariotti, che l’ha accompagnato nell’avventura letteraria editoriale, presenta una «storia» dei labirinti che è una dotta escursione sparsa di intuizioni inedite a ogni passo, in cui rivela di sé quasi più che in altri scritti semi-autobiografici, e in particolare nella Carpa del sogno, dove identificazioni, fughe, ritorni guizzavano nelle forme più sfuggenti del labirinto d’acqua. Fedeli a sistemi di letteratura e arte, che tendono a espandersi, concentrandosi nelle forme più nitide, disseminate di alfabeti e sigle, simboli e campiture, linee essenziali e divaganti, marchi e sigilli a colpo d’occhio e misteriosi: bioi paralleloi
Non dobbiamo credere del tutto a Mariotti quando adotta l’icastica formula di Roland Barthes: «Se dovessi riassumere che cosa ho imparato, da quando, su invito di Ricci, ho cominciato a leggere, a fantasticare, a formulare congetture e a scrivere di labirinti, userei questa formula: un labirinto è un crocevia di simboli, il punto di partenza di metafore innumerevoli». Sarà che, fingendosi ignaro dell’argomento, scrivendone per apprenderlo – così da imitare Teseo che segue il filo-Arianna, e portarci continuamente sulla soglia dello stupore – intesse un racconto, in cui il pensiero rivela la sua scoperta: l’entità sconosciuta, tortuosa, che preme per trovare un varco. Diremo che è il ragno tessitore, Aracne e Penelope ed Elena al centro della tela purpurea, centro e circonferenza: allo stesso modo in cui, nelle trasformazioni più antiche, il Minotauro diventa Centauro, il Cristo da raggiungere, la croce e la rosa, in un processo di sistole-diastole, contrazione-espansione, che imita le pulsioni viscerali con quelle siderali, il basso e l’interno con l’alto e l’esterno, come accadeva nelle figure a zig zag delle danze che imitavano il volo delle gru, per spiccare il volo come Dedalo (evitando l’errore di Icaro), nelle circonvoluzioni dei ragazzi sullo scudo di Achille, nel lusus Troiae, rito di fondazione.