Il 4 gennaio, Jeff Sessions, Attorney General del Governo Trump, ha annullato il cosiddetto «Memorandum Cole» (pdf) con cui, nell’agosto del 2013, il sottosegretario alla giustizia del Presidente Obama aveva tolto dalle priorità federali la lotta alla cannabis per non ostacolare la legalizzazione della marijuana avvenuta a livello statale per via referendaria.

Negli ultimi venti anni negli Usa le leggi sulla cannabis sono molto cambiate: quella terapeutica è legale in vari modi in 29 stati, quella «ricreativa» in otto stati oltre che nella capitale. Malgrado queste riforme radicali, la pianta resta totalmente proibita a livello del governo federale che la tratta alla stregua dell’eroina.

L’effetto annuncio della decisione di Sessions ha fatto crollare buona parte dei titoli delle imprese che investono nel settore della cannabis e dei suoi derivati, in alcuni casi fino al 35%.

Gli operatori più scafati hanno mantenuto la calma ritenendola una decisione grave ma non con conseguenze catastrofiche certe e inevitabili. Infatti, qualora il Congresso non dovesse attenuarla nelle prossime settimane, il nuovo quadro affida ai pubblici ministeri statali la decisione di come e quando applicare le leggi federali sulla marijuana.

Il fatto che le riforme siano avvenute per via popolare segnala un consenso favorevole distribuito in tutti i livelli sociali e istituzionali.

Jeff Sessions è notoriamente uno tra i politici più conservatori di Washington e da sempre è contrario alla marijuana. Fin dalla campagna elettorale aveva lasciato capire che per la cannabis i tempi sarebbero stati molto cupi senza però chiarire cosa avrebbe fatto ma con la cancellazione del «Memorandum Cole» è venuto allo scoperto.

L’attacco dell’amministrazione Trump arriva a poche ore dall’entrata in vigore della nuova normativa che in California consente la libera produzione e il commercio della cannabis e dei suoi derivati. I californiani, che provano a modificare le leggi dai primi anni ‘70, hanno subito risposto per le rime: «Non c’è dubbio che alla fine la California prevarrà», ha detto al New York Times il vice-governatore Gavin Newsom, sottolineando che «I cittadini hanno accettato l’inevitabilità della legalizzazione. Sarà molto difficile per Sessions riportarci indietro a una mentalità che esisteva solo cinque anni fa».

A Washington, Adam Schiff alla Camera e Elizabeth Warren in Senato, entrambi democratici provenienti da Stati che hanno legalizzato, annunciano ostruzionismo: «Tornare indietro nel tempo sulle decisioni federali è uno spreco di risorse» ha detto il primo; «la decisione mette a rischio la salute pubblica e la sicurezza» ha denunciato la seconda.

Il Congresso presto sarà chiamato ad affrontare il conflitto tra le diverse giurisdizioni.

La California è la sesta economia mondiale, e il business della cannabis medica vale 2 miliardi di dollari. Le stime per quella «ricreativa», quando il sistema sarà a regime, prevedono un giro d’affari di circa cinque miliardi.

Tra le peculiarità del modello californiano c’è l’emersione del sommerso, con una sorta di diritto di prelazione per chi ha venduto marijuana illegalmente, e una specie d’indulto per chi l’avesse comprata e usata illegalmente. Insomma il perfetto contrario dello schema della guerra alla droga made in Usa.

La California ha recentemente deciso di non seguire l’Amministrazione Trump nella sua uscita dall’accordo sul clima e adotta politiche sull’immigrazione meno severe di quelle di Washington.

L’attacco di Sessions potrebbe essere solo il primo passo in vista della guerra totale contro i liberal e i progressisti nelle elezioni di mid-term del prossimo novembre.

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