«Non sono stati rilevati profili di trascuratezza nel trattamento detentivo» di Fabrizio Pellegrini, il musicista malato di fibromialgia che ha trascorso oltre cinquanta giorni nel penitenziario di Chieti per aver coltivato in casa marijuana ad uso personale e terapeutico, prima di ottenere, due giorni fa, la detenzione domiciliare. Non ha dubbi, il ministro della Giustizia Andrea Orlando che, dopo l’ispezione disposta sul caso, ha potuto così rispondere ieri al question time della Camera ad un’interrogazione del deputato di Sel, Gianni Melilla.

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«Ho disposto accertamenti preliminari attraverso l’Ispettorato e ho richiesto specifica relazione al Dap, con particolare riguardo alle condizioni del detenuto», ha spiegato il Guardasigilli ricostruendo i vari passaggi della vicenda giudiziaria di Pellegrini, fino alla sua scarcerazione ottenuta il primo agosto dal Magistrato di Sorveglianza di Pescara. Nel cui provvedimento però, puntualizza Orlando, le condizioni di salute del musicista sono state ritenute compatibili con la detenzione anche se è stato accolto il beneficio alternativo di pena richiesto dal suo legale, l’avvocato Vincenzo Di Nanna, in via subordinata. L’incompatibilità con il carcere è stata esclusa anche dal medico del carcere, come evidenzia il Dap, dice Orlando, e Pellegrini sarebbe stato «adeguatamente sostenuto sotto il profilo sanitario e psicologico», anche da «un proprio sanitario di fiducia». Eppure sembra evidente che la cura a base di farmaci cannabinoidi di cui Pellegrini necessita sarebbe stata ancora più difficile da ottenere – e forse impossibile da seguire – in carcere.

Non è un caso di malagiustizia, dunque, sostiene il ministro. Forse di malasanità, ma questo non lo dice. Anzi, rivendica «il potenziamento dell’assistenza sanitaria» dei detenuti come «una priorità del mio dicastero». Però il problema c’è e Orlando non lo nasconde: «La normativa attuale – ricorda – sanziona le condotte di coltivazione di stupefacenti, sebbene finalizzato all’uso personale e a quello terapeutico. I magistrati sono chiamati ad applicare la legge anche in ipotesi di destinazione a fini terapeutici. È affidata alla dialettica parlamentare ogni ulteriore riflessione rispetto ai presupposti per l’incriminazione e alla congruità delle pene che derivano». Come a dire, la questione è squisitamente parlamentare.

Aspettando quindi che la Camera riprenda il dibattito appena cominciato sulla legge per la legalizzazione della marijuana, nel frattempo però il caso Pellegrini ha riacceso i riflettori almeno sulla cannabis terapeutica. I Radicali italiani e l’Associazione Luca Coscioni (che per primi hanno segnalato il caso) hanno chiesto al governatore abruzzese, il dem Luciano D’Alfonso, un «incontro urgente» sullo stato di attuazione della legge regionale per l’accesso ai cannabinoidi. Ma perfino nella maggioranza di centrodestra della Regione Lombardia si è aperto un varco di lucidità. In consiglio sono depositati tre progetti di legge ad hoc: l’ultimo è del Pd, che si aggiunge a quello del M5S e alla pdl di iniziativa popolare dei Radicali che ha raccolto 6mila firme, oltre la soglia necessaria.

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Addirittura, a fare da apripista contro «le ideologie proibizioniste» e le «cortine di pregiudizi un po’ vecchiotti» che sbarrano la strada alla cannabis terapeutica sono alcuni esponenti della Lega nord. In particolare, il vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, Fabrizio Cecchetti, che rivolge un appello soprattutto alla sua parte politica affinché si «superino le preclusioni ideologiche e si affronti da settembre, attraverso un gruppo di lavoro, un dibattito aperto e serio partendo dalle evidenze scientifiche, sia pur nel rispetto della sensibilità di ognuno». Cecchetti, raggiunto al telefono dal manifesto, usa argomenti cari ai suoi corregionali: «Credo che sia giusto e doveroso che una regione come la Lombardia, con 10 milioni di abitanti, grande il doppio dell’Austria e come la Grecia, la terza assemblea dopo Camera e Senato in termini di numeri di rappresentanza, non rimanga indietro rispetto alle altre nove regioni italiane che hanno già legiferato in materia, compreso il Veneto che pure è governato dalla Lega. È nostro dovere semplificare la vita dei malati e normare l’accesso a un farmaco che molti cittadini lombardi sono costretti a procurarsi in Svizzera o in altre regioni». Per dato anagrafico e culturale, Fabrizio Cecchetti (38 anni) non condivide affatto la paura tutta destrorsa di «aprire, con i farmaci cannabinoidi, un varco alla legalizzazione delle droghe leggere». A dire il vero si pone anche una domanda semplice ma sensata: «In tutti questi anni di proibizionismo quali passi in avanti si sono fatti?». Ma «ora il punto è un altro», dice: da vicepresidente del Consiglio regionale si limita a ricordare le «migliaia di malati oncologici, di Aids, di Sla o più semplicemente di epilessia o di altre patologie più comuni, che hanno bisogno di cannabinoidi». Non gente dell’altro mondo: «La Lombardia insieme al Lazio vanta il tristissimo record di incidenza più alta di nuovi casi di Hiv: 26 mila casi accertati». Un fenomeno di ritorno, racconta, che «colpisce i giovani ma anche gli over 60, persone che, con l’uso di farmaci come il Viagra, hanno adottato stili di vita sessuale poco sicuri: Milano, con i suoi 13 mila affetti da Hiv è tra le prime dieci città europee più colpite, e gli esperti dicono che almeno il doppio sono sieropositivi ma non sanno di esserlo. Un indice paragonabile a quello di New York». «C’è solo da applicare il buonsenso – conclude Cecchetti – che non ha colore politico».