Dopo 25 anni dall’ultimo referendum promosso in materia di stupefacenti che non ottenne il via libera dalla Consulta, quello depositato in Cassazione a ottobre scorso mira a riformare il Testo unico in materia di sostanze poste sotto il controllo internazionale.

Il filo rosso che unisce i tre ritagli proposti nel quesito è la volontà di mitigare l’attuale assetto del D.P.R. 309/1990 riconducendo a buon senso la risposta penale a un fenomeno ormai diventato culturale. La proposta referendaria è frutto di anni di analisi critiche che hanno denunciato che il diritto penale dovrebbe intervenire quando tutte le altre misure hanno fallito; i tre ritagli sulla legge ex Iervolino-Vassalli si propongono di attenuare le pene rispetto a fatti che, anche secondo recenti sentenze della Cassazione, non mettono in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza né ledono la salute individuale o collettiva.

L’attuale legge sulle droghe ha le idee poco chiare sui beni che vorrebbe tutelare, nel dubbio però moltiplica le pene e abbraccia una visione basata sul controllo e sulla punizione in cui non si prevede perdono né rieducazione. L’articolo 73 comma 1 del Testo unico del 1990 prevede infatti il carcere da 6 a 20 anni per le condotte di “spaccio”, mentre chi sfrutta la prostituzione minorile è punito con una pena che va da 6 a 12 anni, chi sequestra una persona da 6 mesi a 8 anni, chi indossa una divisa e tortura un detenuto da 5 a 10 anni!

Anche per queste ragioni, il Comitato Promotore ha deciso di sottrarre alla pena detentiva alcune delle 22 condotte contemplate e vietate dall’articolo 73, come in particolare la coltivazione domestica di cannabis a uso personale. Se il referendum verrà dichiarato ammissibile martedì prossimo, e il voto avrà buon esito, l’Italia non si trasformerà nel ranch di Pablo Escobar come paventato dai contrari al quesito, per il semplice fatto che la coltivazione all’ingrosso rimarrà vietata in base agli articoli 26 e 28 che sono dedicati alle attività di produzione massiva. Né sarà possibile raffinare il papavero e trasformarlo in eroina o produrre cocaina perché queste attività resteranno punite mediante la permanenza dei termini «produzione» e «fabbricazione» nel Testo unico ed esclusi dal quesito.

Con il secondo ritaglio si è prevista l’eliminazione del carcere da 2 a 6 anni per le ipotesi di detenzione e “spaccio” delle cosiddette “droghe leggere”. Restano ferme le (draconiane) multe da 5.164 a 77.468 euro perché tutte le Convenzioni sugli stupefacenti chiedono allo Stato di sanzionare queste condotte, pur non imponendo automaticamente una pena detentiva.

L’ultima riforma proposta dal referendum riguarda l’eliminazione della sanzione amministrativa della sospensione della patente – una modifica da non confondere con l’articolo 187 codice della strada che punisce chi guida sotto l’effetto di sostanze – che interviene sull’articolo 75 lettera a) del Testo unico che punisce chi fa uso personale di droghe ma non è alla guida di un mezzo. Una norma irragionevole e svincolata da finalità di prevenzione dei rischi alla circolazione stradale che sacrifica la libertà di movimento del destinatario e spesso causa di perdita del posto di lavoro.

Come detto, la Corte costituzionale è già intervenuta in tre occasioni circa l’ammissibilità di proposte referendarie attinenti a sostanze stupefacenti illecite: nel 1981, nel 1993 (con parere favorevole) e nel 1997. Nel valutare la compatibilità dei quesiti con gli obblighi sanciti dalle convenzioni internazionali in materia, la Consulta ha più volte ammesso che, anche in alternativa alla qualificazione di reato, sia sufficiente per il legislatore nazionale sottoporre talune condotte connotate da minore gravità (tra cui la coltivazione di cannabis e derivati per consumo diretto) a misure amministrative riabilitative anche diverse dalla sanzione penale e, in particolare, dalla pena del carcere. Non sfugge che la prima causa del sovraffollamento delle nostre carceri sia proprio la violazione dell’articolo 73 della legge sulle droghe, accanto alla recidiva del reato.

Anche per questo il referendum, non solo non viola i parametri di ammissibilità dell’articolo 75 della Costituzione, ma consente l’esercizio della sovranità legislativa che può spettare anche al popolo.
Dopo anni in cui il governo delle sostanze psicoattive è stato affidato prevalentemente al diritto penale, i tempi sono maturi per un approccio diametralmente opposto. Il referendum offre questa opportunità consentendo all’Italia di allinearsi a un gruppo di Paesi che hanno progressivamente deciso di bilanciare il controllo degli stupefacenti con misure di buon senso che al carcere preferiscono una regolamentazione legale di condotte che non causano vittime o danni alla salute pubblica.