Il distretto scolastico di San Francisco ha deliberato, poco tempo fa, che gli affreschi che adornano da oltre ottant’anni i muri nelle aule del liceo George Washington dovranno essere rimossi. La decisione è giunta dopo numerose assemblee e riunioni altamente contenziose e ha avuto una eco nazionale suscitando proteste, editoriali e petizioni, aprendo un dibattito su censura, libera espressione il ruolo dell’arte e della «correttezza culturale».
Pomo della discordia sono i grandi murales commissionati nel 1936 che ritraggono il padre della patria anche come schiavista e istigatore del genocidio degli Indiani, un’opera di denuncia per una cornice istituzionale e una dose di verità inconsueta sopravvissuta fino a oggi ma che sta paradossalmente per soccombere, ottant’anni dopo, a un mal riposto impeto censorio.
La storia ha origine negli anni trenta con l’America ancora nel pieno della convulsione della Great Depression che si era da poco affidata al New Deal di Franklin Roosevelt per uscire dall’angustia in cui versava. In quegli anni da Furore (Steinbeck avrebbe pubblicato quel romanzo nel 1939) in California il socialista Upton Sinclair era giunto, nel 1934, a un soffio dal farsi eleggere governatore, San Francisco, polo importante di militanza sindacale, era in pieno fermento progressista. Roosevelt vara in quegli anni il Works Progress Administration, mastodontico programma di opere pubbliche per stimolare la ripresa economica.
L’iniziativa comprendeva il WPA Federal Arts Project, il più lungimirante progetto di incentivazione pubblica dell’arte mai concepito in America. Il programma giunse a sostenere oltre diecimila artisti che avrebbero creato oltre duecentomila opere in tutto il paese. Fra queste ci furono gli affreschi della Coit Tower, una torre art déco da poco eretta su Telegraph Hill, proprio a San Francisco.
Al progetto parteciparono una dozzina di giovani pittori che percepirono dai 25 ai 40 dollari a settimana per raffigurare «scene di vita californiana» su una serie di muri interni. Gli artisti, molti dei quali giovani socialisti e comunisti legati alla California School of Fine Arts, erano fortemente influenzati dal lavoro dei muralisti messicani attivi in quegli anni anche in America. I loro affreschi rappresentano impegno sociale e militanza politica, raffigurano manifestazioni e cortei che rivendicano i diritti dei lavoratori e delle minoranze.

CITY LIFE
Fra i pannelli conservati in quello che oggi è una specie di museo del realismo sociale, c’è anche quello di Victor Arnautoff «City Life » raffigurante una scena di vita quotidiana di gente comune. Di quinta si scorge una edicola che vende giornali, in particolare e i quotidiani di sinistra The New Masses e il Daily Worker.
Poco dopo aver completato quell’affresco, Arnautoff avrebbe ricevuto la commessa di un altro lavoro, sempre nell’ambito della WPA. Si trattava di completare una serie di pitture sui muri della George Washington High School a Richmond, nei pressi del Golden Gate park, accanto al quartiere russo in cui vivevano molti dei suoi concittadini. Figlio di un prete ortodosso ucraino, lui era giunto a San Francisco dopo una vita a dir poco movimentata che l’aveva visto militare nella cavalleria dell’armata bianca in Russia, poi per cinque anni in un rocambolesco esilio in Manciuria prima di immigrare in America per studiare all’Accademia. Aveva lavorato in Messico con Diego Rivera e finito per acquisire un certa reputazione fra le nuove leve dell’emergente movimento di giovani artisti progressisti nella Bay Area.
Eccolo ora all’opera in una delle sue commesse maggiori – il ciclo che adornerà la scuola dovrà raffigurare le gesta del padre fondatore cui è intitolata. Invece della consueta agiografia, sui muri della scuola, Arnautoff produce però un’iconografia straniante: raffigura Washington come uno schiavista che sottomette la frontiera ed i suoi abitanti originari. Nel dipinto, vicino al primo presidente in atteggiamento di condottiero, si scorgono i suoi schiavi al lavoro nelle piantagioni; in un primo piano, vicino ai coloni, giace il cadavere di un guerriero indiano.

LA LEZIONE MESSICANA
Arnautoff mostra di aver appreso la lezione dei maestri Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros. Solo due anni prima Rivera aveva inserito nell’affresco commissionato per il Rockefeller Center (L’uomo controllore dell’universo) un ritratto di Lenin e un corteo del primo maggio. Nelson Rockefeller ne aveva ordinato la distruzione. Nel 1932 la stessa sorte era toccata ad America Tropical che Siqueiros dipinge su un edifico del centro di Los Angeles. L’affresco raffigura un indio crocefisso sovrastato dall’aquila statunitense. Anche questo «oltraggio anti americano» viene imbiancato.
L’opera di Arnautoff pur con le allegorie anti imperialiste sopravvive – almeno per i primi ottant’anni. Per la verità già negli anni ’70, i dipinti diventano oggetto di discordia anche se – a differenza dei colleghi messicani – non da parte dell’establishment conservatore – semmai il contrario. Alla fine degli anni 60, sullo sfondo della controcultura giovanile si protesta contro la guerra, ad Oakland le Black Panthers promuovono coscienza di classe e di razza, articolano una critica della cultura egemone. I murales vengono attaccati come sguardo altro e riduttivo sulle esperienze delle vittime del «destino manifesto».

NARRAZIONI «ALTRE»
Sarebbero frutto di una postura esterna che, in un momento di riappropriazione della narrazione culturale, limita la raffigurazione a stereotipi semplificati di subalterni. Allora si trova un compromesso: viene ingaggiato un giovane artista militante afroamericano Dewey Crumpler (anche lui ha studiato nell’atelier di Siqueiros), che realizzerà negli stessi locali una narrazione alternativa: di fronte ai lavori di Arnautoff, si trovano oggi i suoi grandi affreschi che celebrano la lotta rivoluzionaria chicana e afroamericana.
Oggi però la polemica riesplode e forse non è sorprendente che, nell’ambito del rigurgito nazional populista, stavolta sembri prossima la distruzione dell’opera. Secondo un gruppo all’interno del distretto scolastico, il lavoro di Arnautoff «glorifica la schiavitù, il genocidio, la colonizzazione, il destino manifesto e il suprematismo». Secondo una logica che equipara inspiegabilmente la rappresentazione con l’approvazione, prevale la retorica dello safe space, il concetto di spazio «protetto», diffuso specie nelle università: la creazione di «spazi inoffensivi» come fallace antidoto alla prevaricazione e compensazione storica. L’associazione degli ex alunni della scuola si schiera a difesa delle opere che fra le molte rappresentazioni dei padri fondatori «è fra le poche a denunciarne i peccati originali». La logica sembrerebbe ineccepibile anche perché una censura si allineerebbe proprio con la tradizionale postura del potere costituito. Una petizione nazionale per salvarle viene firmata da 400 artisti ed intellettuali compresa Judith Butler e Frederic Jameson. Ma il presidente del distretto, Stevon Cook, è inamovibile. Sostiene che il murales espone solo un «punto di vista» che travisa «i contributi apportati dagli schiavi africani ai coloni», rivendica il dovere di tutelare «il benestare socio-emotivo (sic) degli alunni».

Per controbilanciare le iniquità della storia occorrono «rappresentazioni positive», non rievocazioni dolorose, affermano gli anti-muralisti varcando beatamente la soglia fra arte e propaganda. Inconsapevoli forse della sostanza stalinista della posizione perorano – nel nome della protezione dei discendenti delle vittime da traumi storici – la causa del realismo socialista o della comunicazione da ufficio stampa.
Per singolare aberrazione quindi un’opera d’arte politica viene condannata dalla sinistra iconoclasta nel nome di un aberrante «garantismo». Saranno loro a completare la distruzione iniziata con Rivera e Siqueiros. In attesa dello scempio, le parole più opportune sono forse state quelle di Crumpler – l’artista autore dei murales «alternativi» che ora difende strenuamente il diritto a esistere degli affreschi originali e rifiuta il movente «pedagogico» della censura: «lo scopo dell’arte è di farti pensare, di farti vedere che il mondo è dinamico. Affrontare le difficoltà è ciò di cui hai esattamente bisogno da ragazzo (…) così che tu possa imparare a superarle».

 

SCHEDA

Nel 1932 la famiglia Rockefeller incaricò Diego Rivera, insieme al muralista catalano José Maria Sert (1876-1945) e all’artista inglese Frank Brangwin (1876-1956), di dipingere nove murales per l’atrio della Rca nel Rockefeller Center di New York. Rivera realizzò l’affresco «L’uomo all’incrocio che guarda con speranza e lungimiranza alla scelta di un futuro migliore», e inserì nella composizione il volto di Lenin, simbolo della riscossa dei lavoratori. Nelson Rockefeller provò a fargli togliere il leader dei bolscevichi, ma Rivera rispose che avrebbe preferito al distruzione dell’opera. Cosa che avvenne, nel febbraio del 1934.