Si tinge di giallo l’annuncio fatto qualche giorno fa dal primo ministro Scott Morrison che il suo governo prenderà in seria considerazione il trasferimento dell’ambasciata australiana da Tel Aviv a Gerusalemme, sulle orme di Donald Trump. Annuncio che per la stampa australiana equivale a una certezza. Alle proteste e alle polemiche politiche generate da questo passo si è aggiunta la contrarietà, per ragioni di sicurezza, dei servizi segreti australiani al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Opposizione di cui Morrison non ha tenuto conto. Qualcuno ha provveduto a far arrivare alla stampa il documento inviato dai servizi al premier e la maggioranza punta l’indice contro l’opposizione laburista che si oppone, almeno in questa fase, al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme. Israele segue con grande attenzione gli sviluppi. Benyamin Netanyahu è fiducioso. Morrison, pensa il premier israeliano, rispetterà l’intenzione espressa in ragione anche della fedeltà australiana alla politica estera degli Stati uniti.

In Australia il dibattito è sempre più acceso. Il primo ministro sta ricevendo importanti sostegni al trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. L’opposizione da parte sua parla di “manovra” elettorale di Morrison, un cristiano evangelico osservante, per conquistare i voti degli australiani ebrei in vista delle votazioni di domani a Wentworth, anche a costo di mettere a rischio le relazioni con i paesi asiatici a maggioranza islamica. A Wentworth, dove il candidato di Morrison, Dave Sharma, non è sicuro di vincere, c’è una comunità ebraica significativa che compone il 13% circa dell’elettorato. E il premier vuole quel seggio a tutti i costi perché è fondamentale per la stabilità della sua maggioranza. Così è pronto a svendere i diritti dei palestinesi su Gerusalemme e a violare il diritto internazionale come ha fatto Trump. Le conseguenze per l’Australia però potrebbero rivelarsi serie, anche dal punto di vista economico.

Canberra lavora da anni a un accordo di libero scambio con l’Indonesia – lo Stato musulmano più popoloso – del valore di oltre 16 miliardi di dollari australiani (circa 10 miliardi euro). Non a caso anche Morrison, come il suo predecessore Malcom Turnbull, ha effettuato il primo viaggio all’estero da premier proprio in Indonesia, dove ha incontrato il presidente Joko Widodo e si è impegnato a firmare l’accordo di libero scambio prima della fine dell’anno. L’annuncio del trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata australiana peraltro è esploso come una bomba quando il ministro degli esteri palestinese, Riyad al Malki era in visita Jakarta, rendendo più dura la posizione dell’Indonesia che da giorni riafferma il suo disappunto per la mossa australiana. Il primo ministro designato della Malesia, Anwar Ibrahim, avverte che l’Australia rischia di compromettere le sue relazioni con molti paesi asiatici e preoccupazione è stata espressa anche dalla prima ministra della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, nettamente contraria a seguire le orme di Trump. Le reazioni più forti arrivano dal mondo arabo. Il rappresentante dell’Olp in Australia, Izzat Salah Abdulhadi, e i diplomatici di 13 ambasciate mediorientali a Canberra tre giorni fa hanno condannato Morrison sottolineando che un nuovo riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele compromette ulteriormente la nascita di uno Stato palestinese sovrano con capitale la zona araba di Gerusalemme.

Le decisione dell’Australia è molto importante perché, a quasi un anno di distanza, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto da Donald Trump non ha prodotto l’effetto domino che l’Amministrazione americana e il governo Netanyahu si attendevano. Solo il Guatemala ha seguito il presidente americano. Lo scorso maggio il Paraguay aveva trasferito la sua ambasciata a Gerusalemme ma poi Asuncion ha fatto marcia indietro e si è schierata sulle posizioni palestinesi.