L’uomo da battere si chiama Stephen Harper, ma non è detto che sconfiggerlo sia sufficiente per cambiare di segno il clima politico del paese e questo sia per la debolezza dei suoi avversari che per la deriva che sembra attraversare la società canadese.

Gli ultimi sondaggi nazionali in vista del voto di domani per il rinnovo del parlamento federale indicano un probabile testa a testa tra i conservatori di Harper, stimati intorno al 30% e i liberali guidati da Justin Trudeau, dati al 29%.

Seguono il centrosinistra del Nuovo partito democratico di Thomas Mulcair con il 26%, i Verdi e gli indipendentisti del Bloc québécois al 5%, anche se questi ultimi superano il 20% nella provincia a maggioranza francofona.

Molti osservatori ritengono però che già prima che si aprano le urne, un risultato questa campagna elettorale largamente dominata dal tema della sicurezza e dell’immigrazione sembra averlo già ottenuto, quello di mettere in soffitta il multiculturalismo che ha caratterizzato il paese fin dal secondo dopoguerra.

Giunto al suo quarto mandato consecutivo in nove anni, Harper ha infatti trasformato le elezioni in una sorta di referendum non solo sulla sua persona, ma anche sulla futura identità del Canada, cercando di sfruttare l’onda lunga dell’emozione suscitata nel paese dagli attentati terroristici perpetrati lo scorso anno a Ottawa e nella città di Québec da due aspiranti jihadisti e costati la vita ad altrettanti militari.

Convinto ammiratore di George W. Bush, Harper si è speso nel corso dei suoi primi anni di governo per difendere ad ogni costo la libera impresa, specie l’industria estrattiva dell’estremo nord del paese, opponendosi fermamente al protocollo di Kyoto, oltre a ridurre le tasse e tagliare il più possibile l’apparato statale.

Al punto che in vista del voto ben 150 tra personalità, associazioni ambientaliste e sindacati, tra loro anche Naomi Klein, Leonard Cohen, Neil Young, Donald Sutherland, gli Arcade Fire e il filosofo Charles Taylor, hanno firmato un manifesto in favore di «un Canada che difenda l’ambiente naturale e riduca le disparità sociali».
Sbrigati gli «affari», negli ultimi tempi il premier si è concentrato invece sui «valori», finendo per incarnare appieno l’anima più reazionaria della destra locale, quella che flirta con i movimenti contro l’aborto e i matrimoni gay, che cerca di affermare l’identità cristiana del paese e, soprattutto, che vuole chiudere definitivamente le porte del Canada agli «stranieri».

Neppure la tragedia del piccolo Aylan, la cui famiglia voleva raggiungere dei parenti che vivono a Vancouver, ha smosso la fermezza di Harper. Del resto, negli ultimi cinque anni l’ingresso dei richiedenti asilo è stato vincolato alla presenza di un privato o di un’associazione che ne prendesse in carico le spese, quella che il quotidiano progressista Toronto Star ha definito come un’autentica «esternalizzazione della solidarietà». Mentre per i lavoratori immigrati è stato posto un tetto di un massimo di quattro anni di residenza nel paese.

In questo clima, solo pochi mesi fa, al momento del varo della nuova legislazione antiterrorismo, un sondaggio ha rivelato come due terzi dei cittadini canadesi ritengano che il loro paese sia «impegnato in una vera guerra». A dare definitivamente fuoco alle polveri è stata però la vicenda di Zunera Ishaq, una giovane insegnante di origine pakistana che al termine di una lunga querelle giudiziaria si è vista riconoscere due settimane fa, da parte della Corte d’appello federale, la possibilità di partecipare alla cerimonia di acquisizione della cittadinanza canadese indossando il velo «islamico» che lascia scoperti solo gli occhi. L’«affare del Niqab» è diventato così il cuore della campagna elettorale, con i conservatori che ne hanno denunciato l’uso come una minaccia per il paese, ergendosi a «difensori dei valori canadesi», mentre i liberali e il centrosinistra si sono divisi al proprio interno sull’argomento.

Nel frattempo, alcuni blogger hanno invitato gli elettori a recarsi alle urne con delle maschere sul volto per denunciare «la fine della democrazia nel paese».

Al di là del paradosso, non si deve dimenticare il contesto in cui ha luogo una simile polemica, quello di un paese dove un abitante su cinque è nato all’estero, la proporzione più elevata di tutto il mondo occidentale e dove lo spazio pubblico si è costruito da oltre mezzo secolo nel segno dell’accoglienza e della tolleranza, in nome di un multiculturalismo che l’ex colonia britannica ha importato più da Londra che dagli Stati Uniti.

Nel Canada dove il diritto alla differenza è stato fino ad oggi regola, ai migranti ma anche ai rifugiati era chiesto di partecipare solo alla prosperità del paese, non ad un modello culturale o tantomeno religioso. Questo, almeno fino alle elezioni di domani.