L’amicizia fra Nicola Chiaromonte e Albert Camus, nata per caso su una spiaggia di Algeri nella primavera del 1941 (l’esule italiano, membro di «Giustizia e Libertà», fuggiva dalla Francia invasa dai nazisti) e durata fino alla morte dello scrittore francese (in un incidente stradale, nel 1960), è una vicenda di rara intensità culturale e umana. Il carteggio fra i due intellettuali ne può restituire un’immagine solo frammentaria, perché proprio in alcuni dei periodi di più assiduo sodalizio – come gli anni fra il 1948 e il 1952, quando Chiaromonte, di rientro dagli Stati Uniti, si trasferisce a Parigi – la frequentazione personale rende superfluo lo scambio epistolare.

Tormenti politici e non
Ma le Lettere 1945-1959 – questo il sottotitolo del volume da poco in libreria per Neri Pozza con il titolo In lotta contro il destino (a cura di Samantha Novello, traduzione di Alberto Folin, pp. 256, euro 22,00) non forniscono soltanto informazioni preziose sulla storia di quegli antifascisti di sinistra che nel secondo dopoguerra transitano nelle fila dell’anticomunismo militante – posizione minoritaria, scomoda, a volte ingenua o perfino ambigua, ma col senno del poi spesso giusta; regala soprattutto squarci appassionanti sui tormenti interiori, politici e personali, di due protagonisti del Novecento. Perciò si può comprendere, se non giustificare, l’enfasi un po’ mélo di una curatela che punta più sull’empatia che sul rigore filologico (pur offrendo, nelle ampie note, molte informazioni utili): un’enfasi di cui è indizio eloquente il titolo italiano, che rimpiazza il denotativo Correspondance dell’originale francese, edito da Gallimard nel 2019.

Chiaromonte, nato nel 1905, è di otto anni più anziano di Camus; ma la fama crescente dello scrittore francese, dal successo dell’Étranger (1942) fino al Nobel nel 1957, e la sua centralità nei dibattiti che infiammano Parigi (ancora, all’epoca, e sia pure per pochissimo, capitale culturale dell’Occidente), rendono il rapporto fra i due inevitabilmente, e sia pure sottilmente, asimmetrico. Un aneddoto sembra riassumerne in modo esemplare una modalità non di rado dominante: nel 1946, Chiaromonte manda a più riprese dalla ricca America sigarette per Camus e pannolini per i suoi gemelli, nati nel settembre dell’anno precedente, chiedendo in cambio libri (Sartre, Merleau-Ponty…).

Le lettere dell’italiano, per numero e per lunghezza, sopravanzano non di poco quelle del francese; il suo apprezzamento per gli scritti di Camus, sia letterari sia politici, è quasi sempre entusiastico e, si direbbe, a volte aprioristico.
Nondimeno, la consonanza di pensiero è spesso reale e profonda. Non solo, per entrambi, un socialismo dalle coloriture libertarie individua nella violenza dello Stato, e dunque in ogni forma di totalitarismo, il nemico principale – al punto che il problema della giustizia può passare in secondo piano rispetto a quello della libertà. Camus condivide nella sostanza le appassionate invettive di Chiaromonte, in cui risuona il magistero dell’anarchico italo-russo Andrea Caffi: «è proprio la burocrazia, è proprio l’ignobile e ridicola macchina chiamata Stato, a uccidere ogni individuo, ogni gruppo, ogni nazione».

Di conseguenza, a entrambi appare urgente la creazione, a livello culturale, di «isole di resistenza» (una «resistenza limitata, ma irriducibile»), di gruppi amicali di confronto intellettuale, di libere associazioni di scrittori e uomini di buona volontà, di riviste indipendenti; e anche, a livello politico, di un progetto europeista. (Che poi quelle associazioni, come il «Congresso per la libertà della cultura», e quelle riviste, come «Tempo presente» di Silone e Chiaromonte, fossero occultamente foraggiate dalla Cia, è altra storia).

Soprattutto, entrambi auspicano, con un afflato a tratti perfino sorprendente, una rifondazione dei valori umanistici, sulle ceneri del moderno nichilismo. Già nella prima lettera, Camus è per l’esule italiano «l’unica voce francese che ispiri davvero coraggio e fiducia»: con implicita, e precocissima, contrapposizione al «formidabile e deludente» Sartre, di cui Chiaromonte ammira l’intelligenza, diffidando tuttavia di quello che gli pare un cinismo amorale, venato di opportunismo e volgarità.

Anche Camus non ha dubbi nell’indicare il compito (dichiaratamente utopico) dell’intellettuale: «mantenere al centro di questo mondo lacerato i valori che sono i nostri». E non esita a aggiungere: «non creda che il Mythe de Sisiphe rappresenti ciò che io penso. Mi sono limitato a definire il pensiero della nostra epoca ed è a partire da qui che abbiamo il dovere di creare valori positivi» (7 novembre 1945). Alla base di questa postura etica c’è senz’ombra di dubbio uno strenuo volontarismo; e, specialmente in Chiaromonte, una buona dose di moralismo. E c’è un (paradossale) rifiuto nei confronti di quella letteratura, decisiva se non maggioritaria nel Novecento, che esplora l’ambiguità del male. Forse anche per questo, azzarderei, Camus non toccherà mai più, nel dopoguerra, i vertici dell’Étranger. Come che sia, di questo rifiuto, che rischia di diventare sordità, è esemplare la reazione di Chiaromonte al Saint Genet di Sartre, addirittura accostato (siamo nel 1952) a Mein Kampf, e interpretato come atto di «gangsterismo» culturale: «orrenda e deliberata istigazione alla bassezza intellettuale e morale con il pretesto di polemizzare con la ‘morale borghese’».

Confessioni private
È un limite, certo; probabilmente inscindibile, però, dal più acuto (e oggi attualissimo) insegnamento dell’intellettuale Nicola Chiaromonte, che è anche un critico (di teatro e di letteratura), ma in un senso lato e fortissimo, teorizzato con splendida semplicità nella lettera a Camus del 15 maggio 1956: «si può parlare adeguatamente d’arte solo attraverso discorsi ‘indiretti’: parlando d’altro, del mondo, da dove l’arte sgorga». Una critica così concepita rischia naturalmente la radicale incomprensione: per esempio, il giovane Carmelo Bene in Caligula, nel 1959, appare «declamatorio e frenetico», perché si fiderebbe troppo dell’«improvvisazione» e delle sue «idee bislacche». Ma trova anche punti di riferimento coerenti: Henry Miller nel primo dopoguerra americano; Boris Pasternak dopo i fatti di Ungheria; e più a sorpresa, ma con intuizione sicura, Tommaso Landolfi: «lo scrittore più interessante che ci sia in Italia attualmente» (1954).

Compaiono, nelle pagine di questo libro, molti dei nomi che contano della cultura degli anni Quaranta e Cinquanta; e si discutono problemi politici e culturali decisivi. Ma sul valore documentario (indiscutibile) ha alla fine il sopravvento la testimonianza umana: soprattutto a partire dal 1954, quando Chiaromonte, con elegante pudore, confessa a Camus i travagli di una crisi matrimoniale; e in risposta lo scrittore francese riflette a cuore aperto sui tormenti di un altro matrimonio difficile, il suo: segnato dalle ripetute infedeltà del marito, e dalle gravi crisi depressive della moglie.

Proprio in queste lettere così intense, e per tanti motivi straordinarie, si avverte nella versione italiana uno stridore di cui sarebbe tuttavia ingeneroso chiamare responsabile il traduttore (cui andranno piuttosto imputate altre sciatterie e imprecisioni, per lo più veniali). Anche quando, nel corso degli anni Cinquanta, i due amici intestano le lettere, e le firmano, col nome di battesimo (addirittura Nicolas, a volte), a testimonianza di una più profonda intimità, non abbandonano mai la forma di cortesia: ma il vous francese, di uso corrente, fino a pochissimi anni fa, anche fra sodali di lunga data e a volte perfino fra familiari, consente una vicinanza e una complicità cui il lei italiano è assolutamente refrattario. Come cavarsela?

Improponibile il voi; filologicamente azzardato il tu (eppure, forse…). Certo suona proprio male, nella nostra lingua, questa, che è la più esplicita, e indubbiamente sincera, dichiarazione di amicizia (di Camus a Chiaromonte, 5 maggio 1954): «Io l’ho riconosciuta: lei era nella decina di esseri con i quali sono sempre vissuto, anche in loro assenza». Questa commovente comunanza umana e intellettuale, cementata anche dall’amore per il mare, e dalla condivisione di momenti felici – come una gita in Campania nell’autunno del 1954 (Camus: «ho ancora Paestum nel cuore, la notte sulla spiaggia e le bufale immobili nel buio») – sembra in parte offuscata, ma non incrinata, negli ultimi mesi, da un giudizio nella sostanza divergente sul colpo di stato di de Gaulle: di fatto approvato da un Camus, che apprezza il tentativo di uscita dignitosa dall’impasse algerina, non perde l’occasione per rimarcare le distanze da Sartre, e sembra ormai tenere in minor conto gli ideali libertari dell’immediato dopoguerra.

Senza l’enfasi di certa sinistra italiana, pronta a evocare gli spettri della dittatura (Camus: «mi sono sentito talvolta offeso dalle posizioni della stampa italiana»), l’europeista Chiaromonte esprime invece forte preoccupazione per «quel miscuglio tra autoritarismo astratto e nazionalismo sorpassato» che legge (giustamente) nella politica gollista. Peccato non poter leggere il séguito.