Intorno al 1637, secondo il veneziano Marco Boschini (1660), di fronte all’Offerta a Venere e agli Andrii di Tiziano in procinto di lasciare Napoli alla volta di Madrid, Domenichino avrebbe esclamato: «puol esser, che una Roma degna manda in esilio cusì gran tesori, che tuta l’adornava de splendori, e al cielo ghe inalzava eterna insegna?». Si trattava di una delle più precoci e commoventi testimonianze di quella dispersione, ma anche disseminazione, del patrimonio artistico italiano, avviata già nel Cinquecento, che è stata messa bene a fuoco da Francis Haskell.
Quei capolavori oggi al Prado provenivano dai camerini di Alfonso d’Este ed erano giunti a Roma nel 1598, quasi come un bottino di guerra degli Aldobrandini, dopo che lo Stato della Chiesa era rientrato in possesso di Ferrara. Divenuti ancor più celebri dopo il passaggio nel 1621 nella collezione Ludovisi, i due dipinti erano stati allora separati dai loro compagni, il Bacco e Arianna di Tiziano e il Festino degli dei di Bellini (il cui paesaggio era stato ridipinto dallo stesso Tiziano), rimasti presso la scomparsa villa Aldobrandini di Montemagnanapoli, dove nel 1664 li segnalava Bellori, che del secondo diceva giustamente: «opera di colore meravigliosa, et unica in Italia». Anche il Bacco e Arianna, alla fine, sarebbe stato mandato in esilio da Roma e dall’Italia, negli anni in cui l’Urbe, spogliata dagli agenti di Napoleone, fu anche teatro di rapine e ruberie a un punto tale da spingere lo Stato della Chiesa a varare, grazie alle sollecitazioni di Carlo Fea, una legge epocale per la storia della tutela del patrimonio culturale, il chirografo di Pio VII del 1802, alla base del successivo editto del cardinal Bartolomeo Pacca, del 1820, che avrebbe sancito per sempre, in Italia, il predominio del bene pubblico sull’interesse privato.
Protagonisti delle trattative che portarono in Inghilterra l’ultimo Baccanale di Tiziano furono un italiano e un inglese, la cui attività è stata analizzata da Pier Ludovico Puddu nel bel libro Pietro Camuccini e Alexander Day artisti e mercanti di quadri nella Roma di fine Settecento Strategie e dinamiche commerciali (De Luca, pp. 164, euro 40,00), uscito nella collana «Esordi» del Dottorato di ricerca in Storia dell’arte della Sapienza. Il Bacco e Arianna, opportunamente riprodotto in copertina, sappiamo oggi che venne acquistato dai due soci nel 1797 per 1500 scudi, quando la collezione Aldobrandini aveva cessato di esistere in quanto tale da ormai trent’anni, smembrata dagli eredi della famiglia, tra i quali i Borghese, che alienarono gran parte dei capolavori giunti nelle loro mani. Nell’Archivio Camuccini di Roma, fino a ora inesplorato, Puddu ha rintracciato anche la nota di vendita del 1806 a James Irvine, che si assicurò quell’opera oggi vanto della National Gallery di Londra per 9000 scudi: un vero affare per la società Camuccini-Day.
Tra quegli estremi cronologici cade il già noto viaggio oltremanica del 1800, quando i due mercanti riuscirono a esportare illegalmente oltre trenta dipinti acquistati nei tumultuosi anni precedenti, esponendoli poi nel 1801 a Londra per raggiungere direttamente i grandi collezionisti anglosassoni, che già da prima, a Roma, costituivano il mercato a cui Camuccini e Day si rivolgevano per opere di quell’importanza. Proprio al 1801 risalgono le ultime note appuntate sull’inedito «Libro de Conti tra me (Camuccini) e Mr. Day» che Puddu ha rinvenuto in archivio, dimostrando che in tutta quella vicenda Camuccini ebbe un ruolo paritetico a quello di Day, indicato come unico proprietario dello stock dei dipinti londinesi dalle fonti dell’epoca.
Che il pittore-mercante romano avesse agito in prima persona per fare uscire dallo Stato della Chiesa quei capolavori era già comprovato dalle lettere rintracciate da Christian Omodeo. Da quella del 20 ottobre 1800 indirizzata al fratello, il ben più noto Vincenzo, caposcuola del Neoclassicismo romano, emerge chiaramente il comportamento fraudolento della società: «quando cominciassimo a pulire li quadri di quello che ci era stato messo sopra s’incominciò dal Sassoferrato… ed in quel momento viddi che tutti quanti erano intatti e vennero puliti come quando erano in Roma». Le tele, cioè, erano state camuffate, ovvero praticamente ridipinte, per non attirare l’attenzione degli agenti della dogana, come opere di poco valore, non soggette al divieto di esportazione. Fea, nel 1805, già accusava Camuccini di aver «trasfigurato» i dipinti «comprati per bajocchi» dalla «Galleria Aldobrandini» e rivenduti a mille sterline, e il nostro giudizio storico di condanna nei confronti di Pietro deve rimanere quello di Fea, ma giustamente Orietta Rossi Pinelli, nella bella prefazione al libro, ricorda come «la diffusione in Europa di tante opere italiane attraverso il mercato, se ha creato giustificati allarmi negli Stati della penisola, ha contribuito a creare un linguaggio visivo condiviso, una comunione di canoni».
Lo stesso Pietro arrivò allora a maturare l’ambizione di crearsi una collezione personale, di cui la punta di diamante era proprio il già citato Festino degli dei di Bellini: acquistato anch’esso nel 1797 per ‘soli’ 500 scudi, nel 1806 era stimato 1800 dai due soci, e Camuccini, come dimostrato da Puddu, usò allora un prestanome per concludere la vendita a Roma della tela ancora in comproprietà con Day, per poi riacquistarla da solo, in quello stesso anno, ad una cifra aumentata di 100 scudi. Nel 1855 anche quel Baccanale, insieme al resto della collezione che aveva messo insieme Pietro (compresa una Crocefissione di Guido Reni) avrebbe infine lasciato Roma, acquistato ancora una volta da un inglese, il duca di Northumberland.
La Storia sarebbe andata avanti, fino al momento di una successiva dispersione, o disseminazione, questa volta oltreoceano: il Festino degli dei nel 1916 venne venduto dai Northumberland, per approdare infine in un’altra sede del massimo prestigio, la National Gallery di Washington.