Campioni in tuta dai Giochi olimpici, con calzoncini lunghi e canotta, oppure con il caschetto. Una sola voce, contro il presidente. Il livello di tensione verbale tra gli assi dello sport americano e Donald Trump non conosce discese. E’ un furioso uno contro uno da mesi, senza esclusione di colpi. Da Lebron James a Colin Kaepernick, il giocatore Nfl che si inginocchiava contro l’inno nazionale messo al bando da Trump, fino a Lindsay Vonn. Non si sentono rappresentati da parole e politiche intolleranti dalla Casa Bianca. Giusto ieri dalle Olimpiadi di Pyong Chang è la Vonn, volto dello sci americano e mondiale dell’ultimo decennio a risegnalarsi al partito anti Trump, assicurando ai media che in agenda non avrebbe riservato posto per la visita alla White House. E alle accuse arrivate dai social sul suo presunto anti americanismo, la sciatrice ha di nuovo spiegato che il problema è solo Trump, il tratto razzista del suo percorso presidenziale.

Le parole della sciatrice sono state il piatto di contorno nella personale battaglia tra Trump e Lebron James, il re della Nba, forse lo sportivo americano più impegnato per diritti civili e comunità afroamericana dai tempi di Muhammad Alì. Ha spesso da dire, James. Mesi fa era arrivato a definire Trump uno straccione («bum»), quando il presidente apostrofava volgarmente l’assenza di Steph Curry, campione Nba con i Golden State Warriors, alla Casa Bianca per la stretta di mani presidenziale. Qualche giorno fa James si era scagliato in un video contro il presidente degli Usa assieme all’altro asso Nba Kevin Durant, prima di essere ripreso duramente da una giornalista di Fox News – network vicino a The Donald -, che lo invitava a giocare, non occuparsi di politica.

«Sono più che un atleta e non starà zitto», ha replicato James, con l’appoggio incondizionato della Nba. A San Valentino invece toccava a Steve Kerr, allenatore dei Golden State Warriors, due titoli Nba negli ultimi tre anni, figlio di un diplomatico statunitense assassinato in Libano 34 anni fa, mentre il figlio studiava e giocava a basket ad Arizona University, a usare parole durissime contro Trump, poche ore dopo il sangue della Florida, del ragazzo armato che collezionava 17 vittime in un liceo, mano alimentata dalla lobby delle armi che avevano aperto cuore e portafogli durante la campagna elettorale di Trump, che in sostanza penserebbe a «inchinarsi di fronte alla National Rifle Association solo perché ha finanziato la campagna elettorale», per costruire «stupidi muri da milioni di dollari», piuttosto che «proteggere i nostri figli da folli che imbracciano armi semi-automatiche e macellano i nostri figli».