Si può capirlo Massimo Campigli. Era nato nel 1895 a Berlino da Anna Pauline Louisa Ihlenfeld, una ragazza diciottenne che, per evitare lo scandalo, lo «nascose» a Settignano, vicino a Firenze, dove sarebbe cresciuto con la nonna e una zia. Anna nel 1899 sposò Walter Bennett, rappresentante in Italia di un’azienda inglese produttrice di colori. Da lui ebbe due figlie, Florence ed Edith. Massimo (in realtà allora Max) venne preso in casa, ma come «nipote», senza quindi che gli venisse rivelato come stavano davvero le cose. Verità che scoprì da solo, per caso, a 14 anni. Fu evidentemente uno choc, a cui si aggiunse quello della morte prematura del patrigno nel 1911. Cioè dell’unico maschio presente sulla scena della sua vita.

Si può allora capire perché, circondato da figure femminili che oltretutto cambiavano camaleonticamente di ruolo, Campigli abbia concepito tutta la sua biografia di pittore come un processo per metabolizzare quell’esperienza. O forse per congegnare una delicata ma sistematica vendetta.

Lo fece con i quadri, ma anche nella vita. È eloquente la testimonianza che ne ha dato Lisa Ponti, figlia di Gio: «ad un certo punto aveva abbandonato la sua bellissima Dutza (la prima moglie rumena, ndr) e si era innamorato di una ragazza di Como, l’aveva sposata e la faceva vestire come la prima moglie con maglioni e bracciali d’argento pesantissimi. Io e mia sorella Giovanna ci stupimmo “ma cosa succede? Cambia donna e le trasforma tutte! È un prepotente!”».

Fu davvero prepotenza quella di Massimo Campigli? Non sembrerebbe, a vedere la bella mostra che la Fondazione Magnani Rocca gli ha dedicato, all’interno di un progetto di rivisitazione dei «petits maîtres» del Novecento italiano (Campigli. Il Novecento antico, a cura di Stefano Roffi, Catalogo Silvana Editoriale, sino al 29 giugno; prima di Campigli era stata la volta di Filippo De Pisis). Fu un pittore ossessivamente monotematico: tolta la prima sala dedicata ai ritratti, tra i quali spicca quello affettuoso ma un filo funereo della famiglia Ponti, tutta la mostra è fedele a quel continuum senza interruzioni che Campigli tesse per tutta la vita con la sua pittura. Donne, donne, sempre donne: creature stilizzate, metà idoli e metà giocattoli, figurini incapsulati nelle loro geometrie, spiritelli intrappolati in queste vetrine fatte di pittura. Niente meglio delle parole di Campigli stesso rendono le ragioni di questo straordinario gineceo, costruito con pertinacia, senza ripensamenti, per cinquant’anni. «Rinchiudevo le mie prigioniere in un palazzo fatto a chiocciola», scrive nella sua breve autobiografia, Scrupoli. «Una sequela di camerette si svolgeva a spirale attorno a un luogo dove mi trovavo io, il sovrano, e tutte le camerette erano aperte al mio sguardo. In ognuna erano due o tre sultane o schiave che fossero. Vivevano in ozi beati, occupate tutt’al più in toelette interminabili, in giochi infantili o in minuti lavori muliebri. Rimaneggiai giorno per giorno (per anni) la mia storia aggiungendo ogni sera alla mia collezione le prigioniere della giornata. Dipingevo già da anni quando mi sono accorto donde venivano i soggetti dei miei quadri. In fondo non dipingevo altro che prigioniere».

È una vera straordinaria fissazione quella di Campigli, da cui non deflette mai, pur proponendo qua e là aggiornamenti su un canovaccio che resta al fondo sempre inderogabilmente lo stesso (aveva ragione Raffaele Carrieri nel sottolineare che «la chiave d’oro per capire Campigli è la sua infanzia»). Se le donnine viste singolarmente ci sembravano spesso reiterazioni dettate anche da una domanda del mercato, viste tutte insieme, in questa mostra acquistano altre ragioni e riescono a sorprendere, sino quasi a irretire, il nostro sguardo. Probabilmente non c’è bisogno di scomodare Freud di cui peraltro Campigli, conoscendo il tedesco per via della sua famiglia, era stato lettore precoce («credo che l’opera d’arte sia una “sublimazione” come dice il Dr. Freud della sessualità», scrisse a Emilio Cecchi già nel 1922). Più semplicemente la pittura per Campigli sembra un lungo regolamento di conti; o meglio, un insistito ammiccamento tra simbolismi sempre abbastanza scoperti, in cui vittime e regista si divertono a mescolare i rispettivi ruoli. Lui certamente tiene la regia costruttiva, combinando e ricombinando quegli elementi «plasticamente suggestivi», che hanno la funzione di «drammi plastici elementari» e che hanno «la suscettibilità di contenere, di essere contenuto, di penetrare, di combaciare» (tutte parole sue nella stessa lettera a Cecchi).

Alla mostra è stato dato un titolo che in effetti rischia di ricalcare uno stereotipo di cui Campigli è rimasto vittima, anche per responsabilità sua. Novecento antico richiama infatti la folgorazione per l’arte etrusca avuta nel 1928 visitando il museo di Villa Giulia a Roma. Un passaggio scolasticamente ricordato in ogni occasione, al punto di provocare un po’ di rritazione nello stesso Campigli. Certamente quell’incontro rappresentò un momento di svolta, aiutando Campigli a risolvere gli imbarazzi di una sua stagione «novecentista» elegante ma vissuta tutta di riflesso. Quello con l’arte etrusca è quindi un incontro liberatorio, in cui trova la sua cifra, appiattendo le forme, creando simulacri seriali, e scegliendo quella pittura a intonaco che lo accompagnerà sino alla fine. Campigli paragona non a caso l’incontro con l’arte etrusca a quello con una donna «che siamo destinati ad amare… E allora si esclama: “Mi pare di averla sempre amata”». Più che fare emergere un sostrato di italianità «antica», il coup de foudre per l’arte etrusca sembra proprio liberare e legittimare una fissazione.

Naturalmente Campigli è anche quello delle grandi imprese murali, tra le quali spicca l’affresco vastissimo per il Liviano di Padova. Con Carrà, Funi e Sironi aveva anche firmato il manifesto sulla pittura murale, in cui tra l’altro, la si definiva «pittura sociale per eccellenza», capace di mettere la museruola agli eccessi di virtuosismi degli artisti. Non è certo questo il Campigli più interessante e se Gio Ponti aveva un debole al punto da «pilotare» la gara per il Liviano pur di aver lui a decorare il suo progetto, è per quella sua capacità di inscatolare gli spazi, di organizzare le superfici in caselle, evitando le ben più drammatiche iperboli formali sironiane.

In uno dei saggi in catalogo Luca Massimo Barbero sottolinea un aspetto emblematico della fortuna di Campigli. È il ruolo determinante avuto da Renato Cardazzo, il grande gallerista che in parallelo a Campigli promuoveva senza incertezze il suo opposto, cioè Lucio Fontana e lo spazialismo. Scrive Barbero: «È in questa dicotomia tra l’allora estrema avanguardia astratta spaziale di Fontana e l’aulico senso figurativo di Campigli che astutamente Cardazzo costruisce il suo successo sia commerciale, sia di promozione intellettuale e critica». Il risultato fu una «straordinaria nuova collocazione dell’immaginario di Campigli… traghettato magicamente dalle monumentalità ingombranti a una contemporaneità ideale». È un’osservazione molto efficace, che oltretutto mette in rilievo quanto sia stato spesso decisivo nel Novecento il contributo di intelligenza e pragmatismo di galleristi e mercanti.

Ci sarebbe però onestamente da chiedersi perché, tra i due gioielli della scuderia di Cardazzo, mentre Fontana è assurto a punto di riferimento a livello internazionale, Campigli è invece rimasto relegato in un orizzonte sostanzialmente italiano. L’idea che sia vittima di troppe concessioni al mercato non è sufficiente: in fondo tanti tagli ha fatto Fontana e tante «donnine» ha dipinto Campigli. E c’è stato addirittura un momento in cui quelle «donnine» avevano catturato anche lo sguardo assolutamente moderno di Antonioni, che aveva voluto un quadro di Campigli nello studio di Mastroianni in La Notte (1961).

La mostra della Magnani Rocca offre un’opportunità esemplare per spiegare questa mancata «fortuna». Infatti le opere di Campigli vengono a comporre sulle pareti quasi un pattern, che scorre come un insieme e da cui non si sente necessità di isolare dei pezzi. È il Campigli nella sua condizione ideale, nella versione più adatta a intercettare sguardi contemporanei, anche per via di quella serialità proposta precocemente senza riserve. È un Campigli che certamente merita di venire riconsiderato e a cui viene resa giustizia rispetto alla marginalità in cui troppe volte è stato relegato. Tuttavia ciò che non decolla è proprio la sua ossessione per l’universo femminile. Se è permesso un gioco di parole, Campigli alla fine ne resta «impigliato». La sua pittura diverte, sorprende, montando e smontando in continuazione queste creature archetipe, ma si tiene sempre saldamente ancorata a mondi conosciuti e familiari. E le strutture dei suoi quadri alla fine assomigliano a dei piccoli fortilizi, che proteggono da inquietudini difficili da governare.