Dati statistici esaustivi non ce ne sono, e difficilmente ci saranno, ma le testimonianze di chi conosce bene i campi rom descrivono un quadro drammatico. «Si rischia di avere una generazione che non va più a scuola», afferma Carlo Stasolla dell’associazione romana 21 Luglio. L’impatto della pandemia sulla frequenza scolastica va diviso in due fasi: la prima, della Didattica a distanza (Dad); la seconda, del rientro in classe da settembre. Le vicende delle scuole superiori, molto più tortuose, riguardano poco i minori che vivono in insediamenti e baraccopoli. Gli ultimi numeri raccolti dalla 21 Luglio per il 2019-2020 dicono che su 870 studenti dei campi della capitale, solo tre erano iscritti alle superiori.

«La Dad è stata un disastro: i bambini sono rimasti senza dispositivi oppure non avevano un accesso a internet sufficiente. C’è poi l’impatto pesantissimo sulla socializzazione: per chi vive in un campo la scuola è l’unico momento per uscire e incontrare l’altro», afferma Clelia Bargagli, dell’associazione pisana Articolo 34. Nella città toscana si trova il «villaggio di Coltano»: dei circa 120 abitanti la metà sono minori.

A Torino sono circa 200 i bambini e ragazzi in età scolastica che vivono nei campi. «Oltre a possedere gli strumenti tecnologici per la Dad sono necessarie l’elettricità, una buona connessione e le conoscenze tecniche per gestire le lezioni. Non sempre si dispone di tutto ciò. Questo ha fatto aumentare la dispersione scolastica», racconta Carla Osella, presidente di Associazione italiana zingari oggi (Aizo).

Le difficoltà, comunque, non sono finite con il rientro tra i banchi. «La seconda fase è stata peggiore – continua Stasolla – All’inizio erano impreparati tutti: computer e connessioni mancavano ai rom come a molte altre famiglie povere. Ma il rientro a scuola è stato uno spartiacque. A Roma non si è fatto nulla per i campi. I mediatori culturali che lavorano sugli scuolabus dicono che se prima della pandemia i bambini erano 10 ora sono 4».

Tra i fattori che hanno contribuito a ridurre la frequenza scolastica c’è anche la paura del virus, che nella capitale aveva risparmiato gli insediamenti fino a ieri, quando una famiglia è risultata positiva a Castel Romano. «Nei campi non c’è stata alcuna azione di informazione sul Covid-19, né di sensibilizzazione sul ritorno in classe. Chi già era spaesato in un contesto spesso ostile si è sentito ancora più abbandonato», dice Marco Brazzoduro, presidente di Cittadinanza e minoranze.

Alla fine il vero scarto tra i bambini rom e gli altri, più che da differenze culturali, è stato segnato dalle condizioni materiali di vita. «A Pescara e in Abruzzo la maggior parte dei rom vivono nelle case e sono stati in condizione di seguire la Dad e poi rientrare a scuola», afferma Nazzareno Guarnieri, della Fondazione Romanì Italia. E sottolinea come siano marginalità e segregazione abitativa a moltiplicare le interruzioni degli studi. «Chi vive nelle case ha avuto gli stessi problemi di tutti gli altri ragazzi – conferma Stasolla – La discriminante è il campo».