Finché hanno potuto hanno cercato rifugio nel parcheggio dei pullman antistante la stazione Tiburina a Roma, un po’ d’ombra sotto i pochi alberi, cartoni stesi sull’asfalto dove da giorni dormono uomini, donne e bambini provenienti da Eritrea e Etiopia. Abbandonati a loro stessi senza neanche una baracca dove andare da quando, a maggio, è stato sgomberata la baraccopoli di Ponte Mammolo. Una scena simile a quella che da giorni si vede anche all’interno della stazione centrale di Milano, dove sono accampate altre centinaia di profughi eritrei e somali. Una situazione resa più grave dalla decisione della Germania di sospendere Schengen fino al 15 giugno, impedendo così ai migranti di proseguire il loro viaggio verso il nord Europa.

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Scene simili fin a ieri pomeriggio quando, mentre aMIlano la Croce rossa insieme alle autorità comunali e regionali intervenivano allestendo un presidio sanitario all’interno della stazione e distribuendo cibo e acqua ai profughi, a Roma a intervenire è stata la polizia sgomberando il parcheggio occupato dai migranti. Ne è seguito unn fuggi fuggi generale. Alcune immagini ripresa dal Tg di Sky mostrano gli agenti che bloccano a terra i migranti mentre altri vengono fatti salire sui pullman e portati via. Alla fine 18 eritrei sono stati fermati e identificati e se non faranno richiesta di asilo politico rischiano di finire rinchiusi nel Cie di Ponte Galeria.
Mercoledì sera a visitare i circa 300 migranti accampati davanti alla stazione Tiburtina c’erano i sanitari di Medu, Medici per i diritti umani. «Sono tutte persone che arrivano soprattutto dal Corno d’Africa, è un flusso continuo», spiega Alberto Barbieri di Medu. «Sono in condizioni psicofisiche molto critiche, alcuni di loro hanno passato mesi nelle prigioni libiche prima di arrivare qui dove non hanno nessun tipo di assistenza, al contrario di quanto avviene a Milano. Tra di loro ci sono anche molti bambini e alcune donne incinta».
Qualche migrante ha trovato ospitalità in un centro della Croce rossa che si trova vicino alla stazione dove ricevono cure e un pasto caldo. «Queste persone presentano malattie dermatologiche, hanno ustioni provocate dalla nafta dei barconi o ferite da arma da fuoco non curate», spiegano medici e infermieri.

Pur nella drammaticità della situazione, ottocento chilometri più a nord i loro connazionali sono decisamente più fortunati. Gli eritrei e gli etiopi accampati nella stazione centrale di Milano possono contare sull’aiuto dei volontari che forniscono loro cibi caldi e cure. Nonostante le polemiche dei giorni scorsi la Regione ha allestito un presidio sanitari di fronte allo scalo, mentre le ferrovie hanno deciso di adibire un’area della stazione a punto di prima accoglienza dei profughi. «Metteremo a disposizione un’ambulanza fissa per i casi di ricovero», ha assicurato il presidente regionale della Cri Maurizio Gusson.

«Noi abbiamo fatto il nostro dovere istituzionale. Abbiamo segni forti di vicinanza e solidarietà», ha detto invece il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Certo c’è un limite. Non si può pensare che Milano da sola, o con pochi altri comuni, possa risolvere un problema epocale. Oggi sempre di più ci vuole corresponsabilità di tute le istituzioni a partire dal governo, dalle regioni e soprattutto dall’Europa».
Ieri sera invece, i migranti sfuggiti nel pomeriggio all’intervento fatto dalla polizia a Roma, hanno trovato rifugio in un centro di accoglienza di accoglienza non lontano dalla stazione Tiburtina. «Ora ci saranno circa 700 persone: in pratica il centro sta esplodendo», ha detto u volontario. «La nostra è una struttura autogestita con 210 posti letto – ha aggiunto – ora vedremo cosa succederà, ma sicuramente non tutti potranno passare qui la notte». «Inevitabilmente Roma resta l’epicentro di tutti i flussi migratori delle popolazioni che, in fuga dalle guerre e dalla povertà, usano l’Italia come ponte per raggiungere il Nord Europa, soprattutto Svezia e Germania», ha detto invece Francesca danese, assessore alle Politiche sociali del Comune di Roma. «Si tratat di persone che non vogliono essere identificate – ha proseguito Danese – e questo ovviamente rende più difficile intervenire con risposte concrete e veloci».