Barcellona in questo periodo è tornata ad essere dei barcellonesi: i turisti sono merce rara, e la città è diventata vivibile com’era venti-trent’anni fa. Le code sono scomparse. Certo, negozi e ristoranti chiusi danno un tono mesto, ma la forza endogena di questo posto straordinario emerge sempre, malgrado tutto e in qualsiasi condizione. Stanno riaprendo teatri, cinema, musei. Si passeggia con una tranquillità che negli anni scorsi era impensabile e gli stessi abitanti riscoprono strade e piazze, ville e parchi, scorci che i 25 milioni e più di turisti annuali avevano occupato e offuscato. Il «Museu Nacional de Catalunya» è situato in Montjuïc, una delle alture che guardano sulla città ed arrivarci, quale che sia il modo prescelto, è una bellissima passeggiata, partendo da Plaza de España. Vale insomma la gita, e se poi al museo è in esposizione una mostra di fotografia che possiamo definire senza esagerare «eccezionale», la gita è vivamente consigliata.

Se guardando il titolo (La guerra infinita), si pensa, non sbagliando, alla Guerra civile spagnola, probabilmente si commenterà con un: «Ne abbiamo viste, di mostre fotografiche sulla Guerra civile…». Ma se si va oltre il titolo, semplicemente, al sottotitolo Tensiones de una mirada («Tensioni di uno sguardo»), si può essere incuriositi: quindi la mostra non è soltanto sulla Guerra di Spagna?! Se il terminus ad quem è il 1989…, ossia mezzo secolo dopo la fine del conflitto (1° aprile 1939). In realtà quel 1989, che potrebbe essere evocativo di altri fatti storici, corrisponde semplicemente alla data di morte dell’autore, Antoni Campañá I Bandranas, il cui nome certo dice poco, specialmente al di fuori della sua patria catalana, e soprattutto, per quanto riguarda la Guerra di Spagna, si potrebbe osservare che di foto su quel tragico evento del secolo XX, ne abbiamo visto davvero tante, e molte di quelle sono di autori famosi, a cominciare da Robert Capa e la sua meravigliosa compagna Gerda Taro.

Ma allora perché dedicare a questo illustre ignoto una mostra – con centinaia di pezzi esposti – che comunque nel titolo richiama il conflitto tra la legittima Repubblica spagnola e i golpisti di Franco? La risposta più facile e immediata è: per la qualità delle immagini; ma ce n’è una seconda e più notevole che attiene all’autore delle foto, un personaggio a dir poco interessante, forse, anzi, unico. Innanzi tutto, si tratta di un «uomo divorato dalla fotografia», come si legge sul catalogo della mostra (a cura di Arnau Gonzàlez i Vilalta e Toni Monné, edito dal Museo in collaborazione con Leica). Il suo interesse per la fotografia è innanzi tutto di carattere estetico, e questo ci fornisce già un elemento utile per inquadrarlo. Anzi, siamo davanti a una sorta di «estetismo estremo», scrivono ancora i curatori, che definiscono senza mezzi termini Campañá, «un fanatico della fotografia».

Dunque costui, nato nel 1906, agente della più importante ditta di macchine fotografiche, la mitica Leica, a Barcellona, collabora, come fotoreporter, all’importante quotidiano barcellonese La Vanguardia ed altri fogli, ma espone, in modo disorganico, gli scatti che compulsivamente realizza fin da adolescente, dopo essere stato educato all’occhio fotografico e all’uso delle macchine, da un professionista di nome Garriga, vicino di casa.

Tecnico e artista
Con la Grande guerra il suo interesse per la fotografia diventa professionale, ed espone in decine di esposizioni in innumerevoli (i «Salon»), in Spagna e fuori: è un fotografo d’avanguardia che lavora classicamente, con mezzi tradizionali, artigianali, e centinaia delle sue immagini percorreranno le strade più varie, e lui, che intanto aderisce a diversi sodalizi, si costruisce un nome nell’universo internazionale fotografico, che tuttavia non attingerà mai la fama vera e propria. Eppure ha una sua peculiarità che consiste nell’essere un tecnico e contemporaneamente un artista; i suoi lavori si possono considerare interni ad una corrente chiamata «pittorialismo» che godrà di una notevole fortuna e longevità. Uno dei tratti tecnici di questa corrente è appunto il ricorso a metodiche antiche e «nobili» di stampa, con l’impiego di bromuro d’argento che viene spalmato su una prima stampa grezza dell’immagine, e quindi ripassata con colori ad olio. Insomma, i pittorialisti realizzano prodotti che sono, in certo senso, a metà tra fotografia e pittura, e questa tecnica serviva anche o soprattutto a portare il colore nelle immagini, che erano in bianco e nero, prima che, essenzialmente dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, facesse irruzione il colore. L’estetica accompagna e si interseca con la documentazione. Certo, Campañá documenta ciò che il suo occhio vede, ma sa creare anche i set adeguati a trasformare una fotografia in un’opera d’arte. E sarà l’estetica a prevalere sulla documentazione della realtà.

Il 1936, con l’alzamiento dei generali, ossia la sedizione di Francisco Franco e dei suoi complici contro la Repubblica, e l’aggressione di Italia fascista e Germania nazista (che sosterranno attivamente il golpe), rappresenterà una cesura sul piano professionale ed esistenziale di Campañá, il quale rimane fedele, tuttavia, alla mescolanza tra elementi classici e modernissimi. È un’età di cambiamenti repentini, e anche se gli scenari rimangono gli stessi, sono i personaggi a mutare: è il paesaggio umano a trasformarsi. Campañá, catalano e catalanista, cattolico, moderatamente filorepubblicano, con una simpatia per gli anarchici, comincia a fotografare in modo quasi ossessivo. Tutto entra nel suo obiettivo, con una predilezione per la quotidianità: sono centinaia e centinaia di scatti, che ritraggono, quasi non per scelta, ma per la inevitabilità della situazione, la ferocia della guerra, con una predilezione per le scene della quotidianità, che ben presto si manifesta in tutta la sua crudezza: miseria, difficoltà di sopravvivenza, arte di arrangiarsi, ma anche le scene di guerra vera e propria.

Le barricate, le barelle che trasportano feriti, i seppellimenti, le mense per poveri, gli improvvisati rifugi contro i bombardamenti italo-germanici e i loro effetti sulla città, che via via viene deturpata, sfigurata, immiserita. E poi gli eccessi dell’anticlericalismo anarchico: chiese bruciate, preti trucidati, e una grottesca, spaventosa esposizione di mummie di suore sottratte all’eterno riposo. L’occhio di Campañá è impassibile, e la sua Leica, o la sua Rolleiflex, riprendono ogni cosa, documentando implacabilmente il conflitto, senza un’esplicita scelta politica da parte del fotografo, che quasi si nasconde dietro le sue immagini, apparentemente neutre ed oggettive. Ma anche in questa vicenda, epica e tragica in realtà accade che l’estetismo lo pervada e, si può dire che egli, con un occhio attentissimo e un cervello rapido, «crei» le situazioni, trasformando immagini in icone.

La miliziana
L’atmosfera dell’estate del ’36, a Barcellona, è di entusiasmo, di combattività, persino di gioia nella fermissima convinzione che i generali traidores, saranno disfatti. Esempio paradigmatico di quell’atmosfera è l’immagine di una miliziana anarchica, dai lunghi capelli, vestita di una semplice tuta da lavoro, un fazzoletto al collo e una cintura (possiamo immaginare l’uno e l’altra di colore rosso fuoco), che alza un braccio con la mano a pugno chiuso. È in piedi, con una gamba ripiegata, e sorride: sembra salutare la vittoria che arriverà, almeno nel suo desiderio, soltanto nel suo desiderio. Campañá la incontra all’incrocio tra la Rambla dels Caputxins e la Calle de l’Hospital, ma la scena che la sua mente fervida concepisce è un’altra, e la crea.

Colloca la ragazza in cima a una barricata, sullo sfondo la bandiera nera degli anarchici, con le sigle CNT-FAI: il pugno teso in altro sembra reggere un lembo di quel drappo, davanti compare un combattente che prende la mira con il suo moschetto, e sullo sfondo uno spicchio suggestivo di uno degli edifici allora come oggi più fotografati della città, la Casa dels Paraigües o Casa di Bruno Cuadros Vidal (dal nome del proprietario che vi aveva installato una produzione di ombrelli, da cui la denominazione). Ed ecco che così costruita, nella astuta ed efficace composizione delle figure e degli sfondi, la ragazza con la bandiera anarchica diventa un’icona, una bellissima icona: non tanto della resistenza antifascista in Barcellona, quanto della rivoluzione in atto. Tutto ciò che è compreso nel «quadro» composto dal fotografo è vero, ma l’immagine, come è rappresentata nella foto, non esiste, nella realtà, o meglio non è mai esistita, così come la vediamo.

Anche se è sconvolto dagli avvenimenti, che in sintesi, descriverà, come «el gran disastre de esta guerra nostra», e che cercherà di fissare con il suo occhio fotografico, la ricerca estetica non viene meno, anche quando si arruola nel ‘37, dopo aver fatto il suo servizio militare nel 1925, nelle forze armate della Repubblica, nell’aviazione: il suo sarà un ruolo più virtuale che reale; di fatto, si ritrova ai margini del conflitto, e vivrà tutto sommato in situazione di estraneità al pericolo negli anni del conflitto; sicché, invece di pallottole spara scatti fotografici, incessantemente. E collabora con la Federazione Anarchica, per quanto attiene alla propaganda. Ma proprio ai fini della propaganda repubblicana la gran parte delle foto di Campañá, sono inutilizzabili, in quanto «scomode»: rivelano l’estrema difficoltà della resistenza davanti alla poderosa macchina da guerra dell’esercito franchista e soprattutto della Luftwaffe tedesca e delle forze armate mussoliniane, la povertà di mezzi, lo spettro della fame che mese dopo mese aleggia sempre più inquietante sulla popolazione civile di Barcellona.

Ritocchi
Sicché soltanto poche delle immagini arrivano sulla carta stampata, e spesso quelle pubblicate non recano la sua firma. Oppure accade che vengano utilizzate, manipolate, ritoccate, come una straordinaria foto di madre con bambina (parte di una serie particolarmente drammatica dei rifugiati di Malaga, occupata dai fascisti italiani e dalle truppe franchiste), che viene usata da John Heartfield, specialista del fotomontaggio, che la ritocca per la rivista Die Volks-Illustrierte, diventando una meravigliosa Pietà michelangiolesca. Il cattolico catalanista Campañá e il comunista internazionalista Hartfield si incontrano nell’ammissione della forza della bellezza, ma nel contempo nella sottolineatura della universalità dell’umana sofferenza. Gli ultimi scatti sono dedicati a visioni delle truppe marocchine di Franco e di soldati italiani che marciano verso la città, ai falangisti vittoriosi che entrano in Barcellona vinta e disfatta.

La scatola rossa
Accade perciò che quel fotografo, forse spaventato e insieme disgustato, raccolga tutti i suoi negativi e i positivi, li deponga in una grossa cassa cartonata di colore rosso, quasi un feretro, dove rimarranno sepolte e nascoste, anche ai familiari, e cambia completamente il suo lavoro. Rimane l’esteta della fotografia, ma si dedica allo sport, all’attualità (compreso l’inevitabile omaggio al vincitore, il «generalissimo» Franco), e ai panorami spagnoli, che vengono trasformati in cartoline illustrate, che riempiranno le rivendite per i turisti. E a un certo momento, tra estetismo parossistico e cinismo amorale, Campañá inventa un’astuta operazione di grande effetto: il montaggio di frammenti delle immagini della Guerra civile sulle vedute tipicamente di consumo per turisti.

Ed ecco il marinaio repubblicano alle cui spalle si profilano gli scogli da cui si sta tuffando in acqua una ragazza in costume da bagno, ecco il miliziano con fucile a tracolla, davanti a un danzatore di flamenco, ecco il soldato della Guardia Nazionale Repubblicana, dietro il quale si affaccia una contadina andalusa che propaganda la sua terra, ecco l’affollata Rambla de Catalunya (dove nel 1941 Campañá ha aperto un proprio negozio-studio fotografico) sulla cui immagine altri combattenti della Repubblica ostentano le loro misere armi… E, infine, il capolavoro: quella ragazza con fazzoletto e cintura, e la bandiera anarchica, abilmente disposta nel suo pugno chiuso (in realtà vuoto), che sembrava l’icona della rivoluzione, eccola sorridere non più ai suoi compagni di lotta ma ad una spiaggia estiva, affollata di bagnanti della Costa del Sol…

Solo in questo modo, così manipolate e «corrotte» le immagini della «Guerra infinita» verranno riproposte dal loro autore; minuscoli frammenti, singole figure isolate, decontestualizzate, neutralizzate, diventano tasselli del mosaico pubblicitario per il turismo della Spagna franchista e post-franchista. Foto non pericolose, foto che possono in tal modo essere tranquillamente essere diffuse e commercializzate.

E il resto? Tutta la imponente mole di materiale fotografico prodotto negli anni del gran disastre della Guerra civile, celata nella caja roja? In realtà le casse sono due, e raccolgono circa 5000 foto, e rimangono nell’autorimessa della villa di famiglia, in località Sant Cugat. Vengono ritrovate soltanto nel 2018, quando la casa viene venduta. Sono rimaste dunque seppellite quasi per circa 80 anni: con la fine della Guerra, nel 1939, Campañá, nasconde quei documenti visivi, forse per paura del regime franchista, forse perché ha deciso di voltare pagina intraprendendo nuovi cammini di tutt’altro genere, sempre con la sua Leica, forse perché gli ricordano anni di sofferenza del suo Paese, o infine per un sottinteso senso di colpa, e vuole semplicemente dimenticare.

Il franchismo cade a metà degli anni Settanta. Campañá muore nel 1989. Perché non ha tirato fuori le sue bellissime sue foto, in quel venticinquennio di democrazia, quando nulla aveva da temere, né da una parte né dall’altra? Domanda che rimane senza risposta, anche da parte degli eredi del fotografo. Per la prima volta fatte conoscere, in una antologia in due volumi, tra il 2019 e il 2020, di difficile reperibilità, oggi sono in mostra, in numero di circa 500 (oltre a innumerevoli cartoline da lui «trattate» nel modo suddetto), nella sua Barcellona, che ora, senza giudicare, le propone. Ciascuno visitando la mostra tirerà le sue conclusioni.