«Salva lo vescovo senato!». Così, con il primo verso del cosiddetto Ritmo laurenziano, si apriva buona parte delle antologie della letteratura italiana del secolo scorso, prima fra tutte i Poeti del Duecento del grande Contini. La cantilena giullaresca fu a lungo ritenuta il più antico testo poetico in volgare della nostra lingua, venendo datata alla metà del XII secolo: il giullare metteva in versi lodi sperticate del vescovo senato (‘assennato, saggio’) per lucrarne in cambio il dono d’un cavallo pezzato («se mi dà caval balçano» ‘un cavallo con chiazze – balze – bianche sui piedi’). Sennonché nel 1960, a margine di un importante convegno di filologia tenutosi a Bologna, l’erudito romagnolo Augusto Campana svelò che quel senato non significava affatto ‘saggio’ bensì ‘esinate’ cioè di Iesi. Quella che era solo un’ipotesi archivistica formulata a inizio ’900 da Francesco Torraca trovava ora una patente conferma linguistica: il protagonista del Ritmo era dunque un tale Grimaldesco, vescovo di Iesi attestato in documenti del 1197 e citato al v. 25 della cantilena, il che la ringiovaniva di 40 anni facendole perdere la primogenitura. Ciò che colpisce è che Campana era giunto alla soluzione sin dal 1925, ancora diciannovenne, «mentre si radeva la barba» (lo racconta Alfredo Stussi in Testimonianze per un maestro. Ricordo di Augusto Campana, Roma, Storia e Letteratura, 1997). è forse questo uno dei tanti episodi che hanno consegnato ai posteri il mito di uno studioso le cui conoscenze, troppo vaste per confluire regolarmente in pubblicazioni a stampa, si affidavano per lo più alla trasmissione orale («l’oracolo ha parlato ancora», ricordava bonariamente l’amico e collega Giuseppe Billanovich). Forgiatosi sulle poderose letture di Muratori e Tiraboschi, tanto da meritargli fin da giovane il nomignolo di «tomo volumnio biblio», Campana fu giovanissimo bibliotecario alla Malatestiana di Cesena per entrare, nel 1935, nel santuario della Biblioteca Apostolica Vaticana, dove ebbe come maestro l’eruditissimo cardinale Giovanni Mercati. Nel 1950 Giorgio Pasquali e Delio Cantimori lo vollero a Pisa per tenervi un corso di paleografia: da allora, e con non poca fatica, Campana divise la sua attività tra Pisa e la Vaticana fino al definitivo approdo alla cattedra universitaria di Urbino nel 1960. In questi anni e nei successivi tra Pisa, Roma e Urbino, formò generazioni di allievi allo studio paziente della paleografia, della filologia, del documento: erede della migliore tradizione della scuola storica innestatasi sul tronco della nuova filologia di Michele Barbi, Campana vivificava l’amore per l’erudizione locale, specialmente romagnola (era nativo di Sant’Arcangelo), con decisivi affondi nella storia della tradizione classica e medioevale-umanistica italiana ed europea. Era capace di inerpicarsi sulla parete di una chiesa o di un campanile di campagna per rilevare il testo di un’ignota iscrizione, come di riscoprire un testimone dei perduti Epigrammata bobiensia, o di identificare il venerando archetipo delle Tragedie di Seneca in un codice della abbazia di Pomposa studiato dal preumanista padovano Lovato Lovati (il celebre manoscritto Laurenziano 37,13). A una bancarella acquistò una copia delle Bellezze della Divina Commedia del modesto purista veronese Antonio Cesari avvedendosi che le postille sui margini dei volumi erano di mano nientedimeno che di Vincenzo Monti: ne comunicò la scoperta a Sebastiano Timpanaro che poté così impreziosire la sua ricchissima voce Cesari, Antonio del Dizionario Biografico Treccani. Accumulò una sterminata sequenza di schede bibliografiche dove tutto registrava, tutto legava, tutto deduceva. Molto di quanto Campana pubblicò è ora disponibile nella raccolta dei suoi Scritti (I. Ricerche medievali e umanistiche; II. Biblioteche, codici, epigrafi; III. Storia, civiltà, erudizione romagnola, a cura di R. Avesani, M. Feo, E. Pruccoli (†), Roma, Storia e Letteratura, 2012-2017), e si scopre che Campana non era poi così refrattario alla pubblicazione se si conta che i tre volumi in sei tomi assommano a oltre 3000 pagine di stampa.

Di una generazione più giovane e dunque ormai pienamente inserito nell’alveo prezioso della nuova filologia, allievo di Gianfranco Contini e Mario Casella, nipote di Pio Rajna e di Guido Mazzoni, Francesco Mazzoni ebbe negli studi danteschi un ruolo pari a quello di Campana per le ricerche medioevali e umanistiche. Fu il primo in Italia a ottenere la libera docenza in Filologia dantesca di cui occupò la cattedra fiorentina per 35 anni ricoprendo, quasi contemporaneamente anche il ruolo di presidente della Società dantesca (fino al 2001). Tanto grandi furono la sua autorevolezza e il suo prestigio che da quando è mancato nessuno ha più osato occupare lo studiolo della Presidenza al fiorentino Palagio dell’Arte della Lana, sede della Società. Mazzoni curò il testo della Questio de aqua et terra per l’editore Ricciardi e aveva in preparazione, per la Società, l’edizione critica sia della Questio sia delle Epistole dantesche. Gli studi propedeutici rimasero spesso in forma di schede o vennero affidati a pubblicazioni a tiratura limitata e comunque non sempre facili da reperire (basti ricordare il pressoché introvabile Saggio di edizione critica delle epistole dantesche I-V). Restano memorabili, fra gli altri, i contributi dedicati all’autenticità della Questio, innescati da un vivace dibattito con il filosofo Bruno Nardi, convinto sostenitore della falsità del trattato: sulla scia del filologo inglese Edward Moore, Mazzoni produsse una serie di argomenti intertestuali tanto solidi che l’autenticità appare oggi difficilmente discutibile. Fra i molti lavori Mazzoni si era ripromesso di condurre a termine anche un commento integrale alla Commedia ma l’estensione dei saggi dedicati ai primi canti (una cinquantina di pagine per ciascuno) dovettero scoraggiare il prosieguo. Di particolare interesse per la storia della disciplina restano i suoi profili dei grandi dantisti del passato che, come Presidente della Società, era spesso chiamato a commemorare: il pastore svizzero Giovanni Andrea Scartazzini, autore di uno dei più esaustivi commenti al poema che ancora oggi sia dato di consultare; il circolo della Dante Society of America di Harvard (da Norton e Longfellow fino a Charles H. Grandgent); il filologo Giuseppe Vandelli. Notevole poi è il dialogo a distanza con Gianfranco Contini nato dal ritrovamento su una bancarella di una copia delle Rime di Dante curate dal filologo ossolano e postillata dalla mano del precedente editore Michele Barbi, ritrovamento che diede vita a uno dei suoi articoli più belli (Lettera da non spedire a Gianfranco Contini). Anche in questo caso le Edizioni di Storia e Letteratura hanno deciso, molto opportunamente, di procedere alla raccolta degli scritti del maestro. Il piano dell’opera prevede sei volumi (Con Dante e per Dante. Saggi di filologia ed ermeneutica dantesca; I. Approcci a Dante. II. I commentatori, la fortuna; III. Ermeneutica della «Commedia»; IV. Le opere minori; V. Pio Rajna e la genesi del dantismo contemporane; VI. Testimonianze, bibliografia, indici, a cura di Gian Carlo Garfagnini, Enrico Ghidetti,  Stefano Mazzoni, Elisabetta Benucci, Roma, Storia e Letteratura, 2014-) di cui sono usciti finora i primi quattro. Sono contributi rivisti dall’autore tra 2005 e 2006 cui faranno seguito rilevantissimi inediti, tra i quali proprio il testo critico delle Epistole.