Alla «valle delle ombre» fa eco l’«inverno infinito» nei progetti espositivi che Camillo Pasquarelli (Roma 1988) ha realizzato tra il 2017 e il 2019. Il fotoreporter torna sul ritmo delle stagioni anche nell’affidare all’ultima strofa della poesia del poeta esule Agha Shahid Ali (1949-2001) il titolo del suo primo libro fotografico Monsoons never cross the mountains (Witty Books, dicembre 2020). Incentrato sul conflitto in Kashmir, il libro è stato realizzato con il sostegno di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino nell’ambito del progetto Europeo Futures Photography. Se, poi, ci fosse un sottotitolo sarebbe certamente «azadi» che in urdu significa libertà: una parola che è diventata lo slogan nelle manifestazioni politiche del popolo kashmiro.

Nel 2010, durante un viaggio in India, Pasquarelli arriva per la prima volta a Srinagar e visita il Kashmir rimanendo affascinato dal fortissimo contrasto tra quei paesaggi meravigliosi avvolti nelle atmosfere sospese dipinte ad acquarello dal poeta-pittore Dina Nath Walli (noto con lo pseudonimo di Almast Kashmiri), rese celebri anche dalla cinematografia sentimentale di Bollywood e la convivenza forzata con la militarizzazione del paese: ambientato in pieno conflitto è, tra l’altro, Haider (2014) il film diretto dal regista indiano Vishal Bhardwaj.

Fresco di studi in Scienze Politiche, Pasquarelli una volta rientrato in Italia decide di iscriversi alla specialistica in Antropologia con l’idea di preparare la tesi sulla regione himalayana a maggioranza musulmana contesa, fin dalla partizione del ’47, da India e Pakistan. Un’ottima scusa per tornare in quella terra di tensioni, sogni e disillusioni, dove nel 2015 trascorre sei mesi indirizzando la sua ricerca sul movimento separatista kashmiro. Ma, soprattutto, scopre nella quotidianità un rapporto genuino con la gente del posto di cui ascolta con interesse e partecipazione emotiva il vissuto stratificato negli anni.

Nel 2016 e 2017 scrive anche degli articoli per il manifesto: «In Kashmir, dove anche i bambini conoscono il principale slogan del separatismo, le proteste seguono il ritmo della preghiera. I giovani lanciatori di pietre sono cresciuti durante gli anni ’90, quando infuriava la guerriglia armata contro il governo indiano. Nei cuori di questa generazione non c’è più alcun dubbio: l’India sta portando avanti un’illegittima occupazione possibile solo grazie alle 600 mila truppe che rendono la regione una delle zone più militarizzate al mondo».

Sempre nel 2017, dopo aver frequentato il master di fotogiornalismo da Officine Fotografiche a Roma con Emiliano Mancuso e Tiziana Faraoni – quando ormai è consapevole che il linguaggio fotografico, più della scrittura, è la forma più idonea per dar forma alle proprie riflessioni – torna di nuovo nel paese per entrare nel vivo della complessità del conflitto intercettandone, oltre che la violazione dei diritti umani (tema della sua mostra The valley of shadows) anche gli aspetti legati alla memoria e all’implicazione religiosa nello scenario politico.

Decide di mettere da parte le immagini di contesto per lavorare in maniera più libera: fotografa sia con la pellicola che in digitale provando diversi formati. Il progetto, però, è ancora troppo confuso. Frequentare il workshop tenuto nel 2018 a Calcutta da Michael Ackerman e Lorenzo Castore con il loro approccio psicoanalitico si rivela essenziale nel definire quella che sarà la chiave del libro Monsoons never cross the mountains: il punto di vista dei bambini e degli adolescenti con la loro percezione del reale più empatica e irrazionale. «L’atmosfera doveva essere disturbante, non didascalica», afferma l’autore. Il suo ultimo viaggio in Kashmir è nel 2019 (proprio in agosto l’India revoca alla regione lo statuto speciale), ancora un passaggio nell’affidare definitivamente il racconto visivo alla percezione della violenza e della sofferenza che egli interpreta in una maniera visionaria, stimolando nell’osservatore rimandi iconografici differenti.

«Il principio del lavoro è questa visione un po’ claustrofobica». Non ci sono fotografie di paesaggio e neppure riferimenti espliciti all’apparato militare, se non nello stencil su un muro e nell’uniforme militare kaki, la stessa – evidentemente un topos tra i «travestimenti» in atto in uno studio fotografico locale – indossata dalla ragazza della copertina e dal ragazzino (retro di copertina) con gli stessi occhiali da sole di plastica rossa e lo stesso manganello in mano. Un’utopia al negativo espressa ricorrendo alla tipologia del tradizionale ritratto di studio con il soggetto davanti ad un fondale: nella prima immagine è una porzione di profilo himalayano che, nell’altra, diventa una semplice tenda a righe bianca e rossa.

Fotografie vernacolari che insieme alle cartoline un po’ stropicciate dei santi sufi venerati in Kashmir (non troppo diverse dai nostri «santini»), prendono posto accanto a quelle in bianco e nero scattate da Pasquarelli. Quanto alla poesia di Agha Shahid Ali che dà il titolo al libro, nella frase «i monsoni non superano mai le montagne» c’è un sottile riferimento alla naturale avversità della regione rispetto al progetto nazionalista indiano anche attraverso la metafora del clima. Diversamente dall’India con le sue due stagioni, il Kashmir che è coperto dalla catena dell’Himalaya ne ha quattro «anche dal punto di vista cromatico è un unicum rispetto all’India».