Ci sono mostre minime che possono diventare esemplari. Esposizioni dove il racconto non è cronaca inerte e lo sguardo è orientato dalla forza critica delle scelte; dove non ci sono tributi alla bulimia da grandi numeri né dimostrazioni di potenza organizzativa, ma una fede nel museo e negli allestimenti effimeri come strumenti culturali. Il Sesto Dialogo montato con solo quattro opere alla Pinacoteca di Brera a Milano va in questa direzione. Attorno agli amori Camillo Boccaccino sacro e profano, a cura di Francesca Debolini e Marco Tanzi (visitabile fino all’1 luglio) si adagia al recente riallestimento delle sale napoleoniche senza interromperne il disegno. L’occasione che lo ha reso possibile è il deposito quinquennale di uno dei capolavori di Boccaccino, la tela con Venere e Amore della collezione Poletti di Porza. Un quadro adatto a un camerino – o a una camera – del relax signorile di una società stretta come in una magnifica conversation piece. Solo da vicino si apprezzano le acconciature impegnative, i ricci, i gioielli, le trasparenze vetrose delle vesti, i toni e la palpabilità dei tessuti. E solo a un passo dal dipinto si incrocia lo sguardo allusivo di Venere, che preme il figlio tra i seni rosa pesca e minaccia di coprirsi, sapendo d’essere osservata, con un velluto cremisi. La scena è giocata tra margherite e tralci di vite, all’ombra di una quercia sotto un cielo carico di umori estivi. Venere incoraggia pensieri sull’amore e sollecita desideri; poco distante, nel letto coniugale, sotto il suo auspicio si poteva consumare l’atto di un’unione feconda.
Il quadro è commissionato tra 1532 e ’37 circa, con buona probabilità da Giovanni Battista Speciano, uno dei politici più in vista dello Stato: guerriero, letterato, «di prudenza rara, e di consiglio Maturo», stando a Morigia. La tela è descritta in un sonetto di Giovanni Paolo Lomazzo del 1587: «Venere bella al picciol figlio dava / La bianca poppa più ch’avorio e neve»… Per la famiglia Speciano, oriunda cremonese ma di stanza a Milano, il dipinto è – sempre Lomazzo, nel verso di chiusura – «più caro che non gemma d’oro».
Questo quadro sfolgorante è al centro del saggio di Tanzi sul catalogo (Skira, 111 pp., euro 17,00). Sono pagine che stringono sui ricordi, richiamando le emozioni delle prime volte – «Sono passati trent’anni da quando ebbi la fortuna di imbattermi nella tela» – e, ricostruendo intorno all’opera un’intera stagione figurativa nella Valle del Po, confermano la prima folgorazione: Camillo, a metà degli anni trenta del Cinquecento, cioè negli anni in cui realizza Venere e Amore, e fino alla morte precoce nel 1546, è davvero in un momento fervido, scaldato da un’intensità poetica rara. È, insomma, tra i protagonisti dei principali fatti artistici della Valpadana. E non è stato, fin qui, un fatto critico scontato, malgrado le opere, poche ma di qualità superba, e le numerose patenti. Per Lanzi, per esempio, Camillo «è il più grande genio della scuola» cremonese; l’abate lo elogia citando Lomazzo, descrivendone le pitture, l’intelligenza, la «bizzarria veramente non imitabile». Poi nel Novecento un saggio di Mina Gregori sulle pagine di «Paragone» apre la strada a nuovi riconoscimenti e grazie a Maria Luisa Ferrari trovano una lettura precipua anche gli affreschi di San Sigismondo a Cremona, dove la fantasia senza freni di Camillo sembra aver fatto deflagrare i modelli della Roma clementina ante-Sacco, Perino su tutti. Eppure nei successivi discorsi sul Manierismo il nome dell’artista è rimasto come sull’uscio, chiuso dentro le mura della propria città natale.
La Venere Poletti è messa in dialogo con la pala che Boccaccino termina nel 1532 per l’altar maggiore della carmelitana San Bartolomeo a Cremona. La tela, illustrata in catalogo dalla Debolini, è nelle collezioni di Brera dal 1809. Porta alle estreme conseguenze le coinvolgenti instabilità atmosferiche dossesche della Madonna di Foligno tenendo insieme le esperienze di Correggio, Parmigianino, Tiziano e Pordenone ed è segnata – ipotizza Tanzi – da qualcosa che non c’è più, da un dipinto sacro perduto ma centrale nei fatti artistici raccontati, che coincide con la comparsa di Giulio Romano a Mantova.
Con le stesse capacità d’aggiornamento della pala, e dalla stessa temperie aristocratica della Venere, nascono anche composizioni più piccole, come il raffinato Cupido che si specchia nello scudo di collezione privata, poco più grande di un cellulare. È un altro pezzo di questo Sesto Dialogo. Qui Camillo, con pennellate rapide e sintetiche, ha dipinto un Amore giocoso, che si crogiola su un prato con la propria immagine riflessa. Una figurina deliziosa e fragrante, davanti alla quale chissà quanti versi spesi, e palpiti, chissà quante elucubrazioni sul senso stesso e sull’origine dell’amore… Questi dipinti profani dall’altissima qualità sono paradigmatici di un’età, e di una società, che può divagare di tenerezze sottili, turbamenti lievi, per accenni allusivi e su immagini erotiche che contrastano con la sensibilità tutta diversa che sta dietro la committenza delle eroine biotte e quasi pornografiche di Giampietrino e dei suoi emuli, nella Milano degli stessi anni. Un mondo che non disdegna i piaceri, purché nobilmente espressi, su cui nei decenni seguenti cala la severa coltre morale borromaica.
La sensualità della Venere di Camillo torna a interessare a cavallo tra Cinque e Seicento, in un momento in cui la fortuna della scuola cremonese della prima metà del secolo è rinnovata con un senso di colto revival. È un’epoca in cui i turbamenti carnali e le sensuali voluttà della materia, anche di quella pittorica, per un motivo o per l’altro appassionano di nuovo: poco dopo la celebrazione di Lomazzo una copia della tela di Boccaccino finisce nella quadreria di Pirro Visconti Borromeo, tra gli splendori della sua villa di Lainate. Passa qualche anno e Fabio II, figlio di Pirro, commissiona a Giulio Cesare Procaccini un’altra inebriante versione di Venere e Amore, come ideale pendant del quadro del padre.
Inginocchiata nuda su un cuscino, la dea di Procaccini è circondata da fiori e putti, tra eleganze parmigianinesche e Cupido che sembra costruito su un lontano ricordo di un Raffaello già rimasticato in Lombardia, la Sacra famiglia di Francesco I. Tutta l’esuberante carnalità rientra nei ranghi, con le colombe bianche e l’anello, di un matrimonio rigoglioso, magari eroticamente animato. La temperatura è calda, soprattutto quando si scorgono, tra i peli dell’ascella della Venere, la firma del pittore e il titolo dell’opera: malizia da feticisti. È l’ultimo atto di questo intenso Dialogo braidense.