A giudicare dalla quantità e varietà di articoli scientifici ai quali Camille Noûs ha contribuito negli ultimi dodici mesi, si potrebbe pensare che presto troveremo il suo nome fra i vincitori del Nobel: dall’astrofisica alla biologia molecolare, sono pochi i settori in cui questo astro nascente della ricerca non abbia dimostrato il suo valore. C’è un problema, però: sebbene gli studi che portano la sua firma siano quasi duecento, Camille Noûs non esiste. Dietro questo nome, infatti, non si nasconde, ma anzi esige visibilità e attenzione, un personaggio creato un anno fa, il 20 marzo 2020, da RogueESR, un gruppo di ricercatori francesi che – spiegano nella homepage del loro sito – «rifiutano nettamente l’attuale linea politica del governo francese per l’università e la ricerca».

Già dal nome (riconducibile sia a una donna sia a un uomo) e dal cognome, dove l’affermazione di un «noi» collettivo si unisce al richiamo del «noûs», l’intelletto greco, l’intento di RogueESR è chiaro: dare vita a «un individuo collettivo che sia il simbolo di un profondo attaccamento ai valori dell’etica e del giudizio, segno distintivo di un confronto non influenzato dagli indicatori elaborati dalla gestione istituzionale della ricerca».

L’azione di RogueESR ha però suscitato opposizioni e critiche. Su Science è uscito un articolo di Cathleen O’ Grady che ricostruisce la vicenda, mettendo in risalto le obiezioni di Lisa Rasmussen, docente di bioetica all’università della North Carolina, secondo la quale questa campagna è «ingenua e eticamente discutibile», perché «si fa beffe del principio fondamentale dell’assunzione di responsabilità da parte di un autore».
Subito i ricercatori francesi hanno replicato che «Noûs ritirerebbe la sua firma in casi di violazione dell’integrità», ma – obietta Rasmussen – con la diffusione di questo personaggio virtuale RogueESR potrebbe perderne il controllo, «e a quel punto chi si approprierebbe del nome di Camille Noûs?». Una domanda, purtroppo, non del tutto immotivata.

Ed ecco un’altra forma di resistenza: è questa infatti l’origine del Banned Books Museum, il museo dei libri vietati inaugurato a Tallinn, in Estonia, lo scorso autunno, su iniziativa di un trentaduenne scozzese, Joseph Dunningam. Intervistato da Babelia, il supplemento letterario di El País, Dunningam ha infatti spiegato come a spingerlo a questa impresa sia stato un vecchio sogno, il desiderio di possedere una libreria tutta sua, ma più ancora la lettura di George Orwell, che ha acceso il suo interesse per la libertà di espressione.
Eterogenea la scelta dei titoli vietati esposti nel museo: si va dalle Cinquanta sfumature di grigio di E. L. James a classici come Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald fino alla distopia femminista di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella. D’altra parte, nota Dunningam, paese che vai, censura che trovi: «Nel Regno Unito i divieti tendono a essere legati al sesso, in Russia l’obiettivo è il controllo delle idee politiche e negli Stati Uniti si è soprattutto preoccupati che i bambini possano venire a contatto con argomenti sensibili».

Non tutti i libri però sono esposti: «Più del 95% della collezione – spiega il direttore del museo – rientra in quella che chiamiamo categoria A, libri accessibili liberamente con una nota esplicativa. Nella categoria B ci sono i volumi che mostriamo solo su richiesta. Infine, la categoria C è riservata ai libri conservati ma mai esposti». Un esempio? Un manuale di costruzione di bombe che risale alla guerra d’indipendenza dell’Estonia, risponde Dunningam: «Conserviamo questo libro, perché è storia, ma lo teniamo fuori dagli scaffali».