Nuovi europei fuori, siamo inglesi. La scorsa estate una campagna discriminatoria contro l’immigrazione clandestina ha invaso anche il calcio del Regno Unito. Mesi di discriminazione contro i cittadini dell’est Europa, partendo dai quartieri di Londra alle altre città britanniche, tra controlli serrati sugli immigrati e arresti di clandestini. E strambe idee come i furgoni itineranti anti clandestini e campagne pubblicitarie che passano in rassegna i difetti della vita inglese. Il copyright spetta al premier inglese David Cameron che qualche giorno sul Financial Times e dalla camera dei Comuni di Londra si schierava apertamente contro il prevedibile flusso di romeni e bulgari che dal 1 gennaio 2014 – Romania e Bulgaria entrano a far parte dell’Ue, cui avevano aderito il 1 gennaio 2007 – potrebbero prendere la strada del Regno Unito.

Ora, è il momento di misure protezionistiche per tutelare il prodotto britannico, tra le critiche dell’Ue. E il football inglese si adegua alla linea dura di Cameron. Che propone limitazioni immediate per sussidi di disoccupazione e benefici per gli immigrati oltre a ostacolarne l’accesso al welfare (dovranno passare tre mesi dall’arrivo), assieme all’espulsione se fossero ritrovati a dormire all’aperto o a chiedere l’elemosina. La Premier League, d’intesa con la federcalcio inglese – la FA -, e altre leghe professionistiche del pallone di Sua Maestà, ha invece accelerato sull’Elite player performance plan (EPPP), un programma di sviluppo giovanile per valorizzare i giovani talenti. Un progetto che racchiude 72 club, costato circa 340 milioni di sterline (più di 400 milioni di euro) per «proteggersi» dai nuovi arrivi dall’estero. E far crescere una nuova generazione di campioni made in England, con valutazioni sull’operato dei club, dalle strutture dei centri d’allenamento agli indici di produttività.

In pratica, più la società di calcio segue i principi del vademecum anti stranieri, più sterline da investire per i giovani si ritrova sul conto in banca. Secondo un criterio che assegna da 1 (livello elìte) a 4 – con erogazione dei fondi in base alle valutazioni tecniche – lo screening sui club terrà conto anche del livello di formazione e di coaching sui giovani atleti. L’applicazione dell’EPPP, oltre a rafforzare la linea antieuropeista di Cameron, arriva anche per invertire il trend che vede sempre meno calciatori inglesi protagonisti in Premier League. Secondo un sondaggio pubblicato qualche settimana fa dalla Bbc, negli ultimi cinque anni sui campi inglesi si è scesi dal 35,4% al 32,2% di atleti «nativi». Un confronto impietoso con gli altri top campionati d’Europa.

La Serie A, per esempio, ha usato il 45,4% di giocatori italiani (cinque anni fa erano quasi il 65%). La Bundesliga ha utilizzato per metà calciatori nati in Germania e la Ligue 1 piazza sul terreno di gioco addirittura il 51,1% di francesi. E in testa c’è la Liga spagnola che impiega il 59,4% di giocatori nazionali. La prova che i successi iberici degli ultimi anni – due Europei e il Mondiale sudafricano – sono dovuti anche alle strategie per dare più spazio ai talenti cresciuti in casa mentre i Tre Leoni non vincono il Mondiale dal 1966, qualificandosi per Brasile 2014 solo all’ultima gara del suo girone di qualificazione. Ma l’EPPP non è stato accolto con favore da tutti i club. Dai più piccoli della Premier League sino alle categorie inferiori, Championship e Football League. Il West Bronwich Albion, inserito nella categoria elìte (1) dopo aver speso quasi tre milioni di euro per ammodernare le sue strutture, si è lamentato negli scorsi mesi perché il sistema tutela poco i piccoli club, che perderebbero i talenti in favori del top club. E la stessa denuncia è arrivata dall’Aston Villa.