A tre giorni dal più grande evento storico ed istituzionale europeo dal Secondo dopoguerra, al pari della caduta del muro di Berlino, il paese si confronta con le conseguenze della decisione presa dai 17 milioni di elettori che hanno votato per l’uscita dalla Ue. Il clima è chiaramente ancora di sgomento, come evidenziano le prime pagine di lunedì di due quotidiani agli antipodi: al posto delle consuete soubrette e calciatori, Metro mostrava una foto notturna di Westminster col titolo “Le luci sono accese ma in casa non c’è nessuno”, mentre sulla prima del Financial Times campeggiava un lugubre sfondo nero. «Almeno il titanic aveva un capitano», scriveva il Guardian in un editoriale.

Pur essendo ridotto politicamente a un ologramma, è ancora David Cameron quel capitano, e in quella veste ha presieduto la prima riunione di gabinetto dopo il quasi singhiozzante annuncio di dimissioni venerdì scorso. Il suo portavoce ha subito escluso che la strampalata iniziativa di indire un secondo referendum a rettifica di quello che ha appena sancito l’ineluttabile Brexit si possa praticare, con buona pace dei tre milioni – parte di cui era gonfiata dall’intervento di alcuni hacker – di firme che hanno intasato in poche ore il sito delle petizioni online del governo. Ciononostante, la questione rimane in piedi: a parte l’avvocato Geoffrey Robertson, che, facendo leva sull’oralità della costituzione, sempre dalle pagine del Guardian avverte che è comunque il parlamento britannico a dover approvare l’avvio del ritiro dall’Europa, c’è la netta opposizione di Nicola Sturgeon, che non ci sta a vedere la devoluta Scozia, in maggioranza per il remain, trascinata fuori contro voglia dall’Europa. Già venerdì scorso, Sturgeon aveva detto chiaramente che un nuovo referendum scozzese è probabile.

Cameron ha poi parlato ai Comuni nel primo pomeriggio, delineando i futuri passaggi della negoziazione per l’uscita a fronte di quella che sarà la sua imbarazzante comparsa davanti ai colleghi europei a Bruxelles martedì. Ha annunciato la costituzione di una task force amministrativa che se ne occuperà, con l’apporto di figure tra le «migliori e più intelligenti» di Westminster sotto la guida di Oliver Letwin e cui parteciperanno i parlamenti devoluti di Scozia e Galles, oltre che l’amministrazione della capitale. Ha condannato gli episodi di razzismo e intolleranza che hanno preso di mira membri della comunità polacca e cittadini perfettamente britannici di origine asiatica e assicurato che non vi sarà alcun mutamento nello status dei cittadini comunitari che vivono in Gran Bretagna. Ha poi ribadito le assicurazioni che il cancelliere George Osborne aveva fatto qualche ora prima allo scopo di rassicurare sulla tenuta dell’economia.

L’ologramma sarà poi sostituito con una persona politicamente in carne ossa subito dopo l’estate, almeno stando al 1922 Committee, un comitato di backbenchers conservatori che ha stabilito una tabella di marcia: le nomination dovranno essere rese note entro questo mercoledì, e il risultato raggiunto entro il prossimo 2 settembre. Ha anche ribadito che la clausola 50 che dovrebbe mettere in moto la negoziazione del distacco non sarà posta in opera prima di ottobre, ignorando le ripetute pressioni dei ministri degli esteri Europei per una maggiore celerità.

Quanto alla rassicurazione di Osborne, non ha rassicurato un granché. La volatilità in borsa è ripresa poche ore dopo ieri il ministro dell’economia faceva il suo discorso. Le banche britanniche sono crollate per via della loro cospicua esposizione. La vendita delle parzialmente nazionalizzate Royal Bank of Scotland e Lloyds, che Osborne voleva vendere per abbassare il debito non saranno affatto vendute. Sia Barclays che Lloyds hanno perso il 30% del valore, la sterlina è scesa contro il dollaro a livelli del 1985 dopo che i mercati asiatici se ne erano liberati a favore dello Yen. Il budget di emergenza che aveva minacciato in campagna referendaria, attirandosi accuse terroristiche, non si è materializzato.

Quanto al nome del futuro leader, la scelta è abbastanza ristretta, e i nomi più papabili sono quelli di Johnson e Theresa May. Nella loro prima conferenza stampa all’interno del cabinato che fungeva da loro quartier generale, Gove e Johnson sembravano due senili fanciulli scappati di casa e ritrovati dalla polizia sani e salvi dopo febbrili ricerche. La loro vittoria, ottenuta grazie – e soprattutto – alla trucida retorica razzistoide dei creativi di casa Farage, li mette ora di fronte a una serie di test per cui non li si sospetta granché preparati. Dovranno fare una serie di marce indietro soprattutto con quelli che hanno votato leave dopo aver visto il gaglioffo poster di Farage (quello con la scritta “punto di rottura” davanti a una fila di profughi siriani) e che ora si aspettano l’impossibile chiusura delle frontiere. Il loro dilemma principale? Stare nel mercato unico e non poter fare nulla sull’immigrazione, o uscirne innescando una quasi certa contrazione dell’economia.