Theresa May non ha avuto nemmeno il tempo di scegliere i colori delle tende, i trasportatori sono già arrivati. Col marito banchiere s’installerà stasera a 10 Downing Street dopo aver fatto visita alla regina per espletare la trafila del passaggio di consegne. Anzi, dello scettro, vista la sua nomina per acclamazione bypassando la volontà dei membri del partito. I quali, se costei non si fosse inaspettatamente ritirata, si sarebbero potuti incaponire ad eleggere la cripto-filo-Ukip Andrea Leadsom, col risultato di rinverdire la reputazione dei Tory come del “nasty party”, il partito maligno.

Appena finito il proprio, di trasloco, le toccherà gestire quello del paese dall’Unione europea, il lavoro più duro. May e David Cameron hanno avuto ieri la loro ultima esperienza di routine governativa nelle rispettive cariche, quella di ministro dell’interno e primo ministro. Cameron ha presieduto il suo 215simo e ultimo cabinet meeting, in cui si è discusso tra le altre cose, il delicatissimo (per il Labour di/contro Jeremy Corbyn) voto sul rinnovo del sistema di sottomarini nucleari Trident. Ha ricevuto gli omaggi di prammatica da May e dal cancelliere Osborne e poi ha fatto l’ultima visita da premier a una scuola. Oggi l’attende l’ultimo atto da premier, l’incontro/scontro con l’opposizione in aula del mercoledì, poi schizzerà nella sobria cornice di palazzo Buckingham a dare le dimissioni nelle mani della monarca. Dopodiché sarà finalmente la volta di Theresa: la figlia di un pastore anglicano, dalla legnosità piccolo-borghese di marca thatcheriana, la cui inattualità e lontananza dal circo delle Pr e di tutte le amenità in cui la politica europea ha cincischiato negli ultimi vent’anni rincuorano quei moderati old school che fremono davanti all’immensità del compito di fronte al quale i suoi colleghi si sono finora rivelati tutti chiacchiere e distintivo: quello di traghettare il paese fuori dall’Ue. Una Ue che non aspetta: ieri il presidente del parlamento europeo Martin Schulz ha sollecitato May perché avvii la macchina del divorzio già dalla fine dell’estate, quando lei ha dichiarato che l’articolo 50, che sovrintende il complesso processo, non sarà attivato prima della fine dell’anno.

Ora Cameron, il grande scommettitore che ha puntato e perso tutto sul cavallo sbagliato, si prepara alla sua nuova vita da backbencher, mentre May dovrà mettere, forse già da oggi pomeriggio, le mani sul rimpasto di governo. Cosa delicata assai, giacché gli ultrà del leave, dentro e fuori il suo partito, si aspettavano un primo ministro dalle loro fila. Il rimpasto dovrebbe dunque contenere alcuni brexiteers, per ricomporre il prima possibile la frattura che ritualmente ogni venti, trent’anni, si crea fra i Tories sulla questione Europa. Nonostante le apparenze, sono al momento un partito in crisi che sta sbandando verso destra e forse l’elezione di May, con le sue finte politiche contro la diseguaglianza, è il male minore. Lunedì sera David Cameron, dopo aver parlato per l’ultima volta alla solita siepe di cronisti davanti a Downing Street, si è dimenticato il microfono acceso mentre rientrava canticchiando. Il paravento fittizio che separa la solennità ufficiale dei ruoli istituzionali dalla spesso patetica realtà degli individui che li interpretano è crollato per un magico istante rivelatore, smascherando la congerie di avventuristi (Gove, Johnson, Leadsome, Farage e lo stesso Cameron, benché nominalmente pro-remain) che ha abbandonato la nave in mezzo alla procella.