Un dibattito fiume, quello di mercoledì ai Comuni, ancora in corso mentre scriviamo: lungo e poco tranquillo. Cominciato sulla scia dello sdegno di molti deputati laburisti non solo in quota Corbyn ma anche centristi, furibondi per l’uscita di David Cameron, che martedì sera aveva etichettato chi tra loro si oppone ai bombardamenti come un «simpatizzante dei terroristi». Una sparata alla Boris Johnson che ha scatenato una serie di richieste di scuse che il premier si è puntualmente rifiutato di porgere.

Erano previsti 157 interventi, limitati a cinque minuti l’uno, dopo che Cameron non aveva concesso i due giorni richiesti da Corbyn per il dibattito e preferito invece concentrare tutto in un’unica giornata, dalle undici del mattino alle dieci di sera. Un intero giorno in cui il paese è rimasto attaccato alle news e ai social network, mentre gruppi di manifestanti contro la guerra si sdraiavano a terra davanti a Westminster, a richiamare l’attenzione sulla sorte dei civili nel caso, sempre meno improbabile, che l’assemblea parlamentare bipartisan mandi i 6 Typhoon e i 2 Tornado della Raf a bombardare Daesh anche su suolo siriano.

Più di cinquemila persone avevano già manifestato lunedì sera, alla marcia organizzata dalla «Stop the war coalition».

Dal momento che il paese è già attivamente impegnato a bombardare in Iraq, e visto l’assembramento internazionale di aviazioni militari nella regione a litigarsi pochi e sempre mutevoli obiettivi, è improbabile che il contributo britannico imprima chissà quale svolta strategica al conflitto.

Tuttavia, è evidente che questa partecipazione, simbolica o meno che sia, ha un’importanza e un peso enormi soprattutto all’interno, come sempre succede in questi casi. Non solo da un punto di vista morale ma prima ancora politico.

A voler lasciare, infatti, da parte la seconda guerra mondiale, dove l’eredità di Chamberlain e dell’appeasement pre-Churchill guastarono le aspirazioni di governo dei conservatori per buona parte del ventennio successivo al ’45, è stato soprattutto con la recente, catastrofica avventura irachena, imposta al paese dall’allora leader Tony Blair, che l’entusiasmo del paese rispetto alle galoppate al fianco dello Zio Sam ai quattro angoli del globo si è decisamente intiepidito. Per poi raffreddarsi ulteriormente grazie ai non-risultati ottenuti con altre missioni in Afghanistan e in Libia.

Ma se l’importanza politica del voto di ieri – mentre si va in stampa pare confermare un via libera all’intervento abbastanza ampio e che dovrebbe aggiudicargli i 326 voti necessari – è importante per Cameron, è del tutto cruciale per Corbyn, che ha subìto la batosta di dover concedere il voto secondo coscienza ai suoi e nello scranno dei Comuni sedeva con a destra il centrista Hilary Benn (il ministro ombra degli esteri, figlio del quasi-mentore di Corbyn, Tony) e a sinistra il vice leader Tom Watson: due pesi massimi dell’ala moderata del partito ma entrambi – pur tragicamente dilaniati nell’intimo – favorevoli allo scatenamento dei tifoni e dei tornado, e che hanno votato a favore. Un’altra figura chiave del governo ombra, Maria Eagle, alla difesa, è anche lei a favore.

Verso sera il governo ombra si presentava schierato con 8 ministri a favore e 16 (la maggioranza) contro.

L’immagine di un leader con al fianco i suoi due più importanti collaboratori che dissentono gravemente dalla linea che non è stato in grado di imporre e che dicono l’esatto contrario di quello che dice lui è l’istantanea di questo partito in questo momento.

 

Con la base (pacifista) che minaccia e promette «sanzioni» elettorali verso i favorevoli ai bombardamenti e che ha conficcato nel cuore il cuneo di questo voto, sul quale Corbyn – costretto dalle minacce di dimissioni che risulterebbero politicamente per lui ancora più funeste, non ha imposto ferrea disciplina, come invece fece Blair nel 2003.

Dai comportamenti più aggressivi verso i deputati falchi Corbyn in serata ha preso nettamente le distanze, ricordando a tutti di agire «da compagni» anche e soprattutto quando la si pensa diversamente.

Questo per quanto riguarda i tormenti del cosiddetto «ineleggibile» Corbyn.

Ma a voler guardare anche oltre gli equilibri parlamentari, il Times ha pubblicato i sondaggi di Yougov secondo cui in quest’ultima settimana c’è stato un drastico calo dell’opinione pubblica a favore dell’intervento in Siria.

Se prima il 59% era a favore e il 20% contro, ora le percentuali sono rispettivamente del 48 e del 31%.