Sorpresa. Il governo di coalizione sta privatizzando le poste. La Royal Mail, mica una cosa qualsiasi. Un’azienda pubblica enorme, vecchia di 497 anni, la più antica del mondo, considerata l’argenteria di famiglia dalla destra e dalla sinistra.

È la più grande privatizzazione in trent’anni, dopo quella dell’energia e delle ferrovie. In discussione da circa venti, la si sta affidando a Goldman Sachs e USB: due pie istituzioni bancarie, l’una definita senza troppi guizzi metaforici «in bancarotta morale» da un suo stesso alto funzionario, l’altra impastoiata nell’affaire Libor.

Saranno loro a fornire il disinteressato apporto necessario alla quotazione in borsa, dal prossimo marzo, dell’azienda: un’operazione da 2/3 miliardi di sterline (circa 2/3 miliardi e mezzo di Euro) da cui ricaveranno l’1 per cento (almeno 30 milioni di sterline, 35 milioni e mezzo di Euro). Seguono a ruota – in ruoli più marginali, Barclays e Bank of America Merrill Lynch, Investec, Nomura e la Royal Bank of Canada. Un dieci per cento delle azioni sarà riservato ai lavoratori.

Si fa, nonostante gli utili viaggino a quota 403 milioni di sterline (circa 478 milioni di Euro, ben 297 in più dell’anno precedente). Un autentico raddoppio, grazie anche al boom delle vendite e delle spedizioni online, col superamento di quella che solo qualche anno fa pareva una lenta agonia e che aveva portato prima, nel 2004, al dimezzamento delle consegne, poi alla chiusura accelerata di uffici postali nelle zone rurali e l’appalto a privati di parte delle spedizioni. Il governo si è impegnato a mantenere la cosiddetta universal service obligation ovvero l’obbligo di consegnare a prezzo fisso la posta sei giorni a settimana su tutto il territorio. Ma è ovvio che al primo calo dei profitti questo servizio sarà insidiato, come anche i salari. Stranamente, non quello dell’Ad Moya Greene, il cui stipendio di 1.6 milioni di sterline l’anno scorso (circa 1,9 milioni di Euro) è aumentato di 592,000 Euro.

I lavoratori sono naturalmente in lotta. Il 96% di loro è contrario. Lunedì hanno protestato davanti alle sedi di Goldman Sachs e UBS; sono in preparazione scioperi e il 31 luglio la Communication Workers Union voterà sullo sciopero. Lo scopo è spaventare potenziali investitori. Nel partito di Miliband, ora impelagato in una logorante disputa con i sindacati, in pochi hanno battuto ciglio, lasciando le proteste ai nazional -xenofobi dello Ukip e a qualche conservatore old school (leggi: pre-Thatcher) che più che la difesa del lavoro ha a cuore quella del prestigio nazionale. Nessuna meraviglia: la decisione conferma la continuità politica sostanziale fra Tories e New Labour, incarnata dalla trimurti liberista Thatcher-Blair-Cameron. Fu infatti lo spigliato Peter Mandelson, architetto fra i principali del New Labour allora nella veste di Business Secretary (ministro dell’industria, famoso per aver detto testualmente che il partito era “del tutto rilassato all’idea che la gente diventasse schifosamente ricca”) a dirsi per primo favorevole a una parziale privatizzazione delle poste nazionali.

Non se ne fece poi nulla, vuoi per l’opposizione residua nel partito, vuoi soprattutto per la scarsità, all’epoca, di acquirenti. Ovvio, ci sono di mezzo anche i Lib-dem: inizialmente si dissero favorevoli a una quotazione parziale (il 49%), solo per farsi poi travolgere dall’impeto dei conservatori. Ed è stato proprio Vince Cable, Business secretary a riferire mercoledì in parlamento sui termini della quotazione. Insomma, non sono solo Tories, come invece sarebbe naturale aspettarsi. Tanti anni fa.