È il Day After delle elezioni più imperscrutabili degli ultimi trent’anni, che hanno visto i conservatori riprendersi una maggioranza che gli sfuggiva dai tempi di Margaret Thatcher.

Altri cinque anni, da soli: nessuno ci credeva fra le file di David Cameron. Probabilmente nemmeno lui, tanto bovina era la fiducia generale nei sondaggi. Tutt’attorno, edifici politici che parevano secolari si sono sbriciolati sotto i colpi di un sistema elettorale spietatamente darwinista, combinato con l’allargamento della faglia scozzese.

È lo scenario di un ritorno al bipartitismo, dove i kingmaker sono banditi. Ci s’interroga su come mai l’elettorato abbia premiato i Tories per i successi di questo governo e ne abbia invece spietatamente punito gli alleati Lib-Dem per gli insuccessi.

Un ex-vicepremier, il liberaldemocratico Nick Clegg, è rimasto quasi senza partito, estinto alle urne. Un aspirante premier, il laburista Ed Miliband, ha fatto peggio del predecessore Gordon Brown e ha perso il blocco storico e sociale più importante del proprio elettorato: quello scozzese. L’uomo-simbolo di quella che in Italia chiamerebbero antipolitica, Nigel Farage, non è riuscito a entrare in Parlamento e si è dovuto accontentare di mandarci un gregario, al netto di una percentuale di voti tutt’altro che trascurabile del 13%.

Tutti e tre hanno dimostrato grande decoro nei loro discorsi d’addio, che avrà senz’altro aumentato il complesso d’inferiorità dei moderati italiani, frustrati dal machiavellismo levantino dei politici nostrani. Ah, il capitalismo, il rule of law e l’etica protestante.

La stupefacente vittoria fa dell’Snp il terzo partito di un Paese da cui vuole andarsene. Magari portandosi dietro i molti inglesi che, ieri mattina, si saranno svegliati con il giustificabile desiderio di trasferirvisi. Soprattutto chi vedrà calare sulla propria sopravvivenza la mannaia di 12 miliardi di sterline in tagli che Cameron e George Osborne (immediatamente riconfermato alle Finanze, assieme a Theresa May agli interni, Philip Hammond agli esteri e Michael Fallon alla difesa) stanno affilando, e sulla quale sono stati adeguatamente evasivi in campagna elettorale. Ora da un simile mandato c’è da aspettarsi la riduzione del settore pubblico nazionale a dimensioni paragonabili a quelle che aveva negli anni Trenta. Gli scozzesi vanno dunque capiti. Non avevano alcuna voglia di tornare a essere governati dalla maggioranza inglese di un partito che da loro quasi non esiste, com’era negli anni Ottanta. Sotto questa luce, il nazionalismo appare come una bandiera con la quale difendersi dai tagli neoliberisti di Londra, su cui è effigiata la croce di S. Giorgio. Ecco spiegata questa deriva fra nazioni: la scelta socialdemocratica del nord contrasta con quella smaccatamente neoliberista del sud. E la vittoria di Cameron non farà altro che aumentarne la tensione interna.

Cameron userà il vecchio grimaldello ideologico di Disraeli, il one-nation conservatism, per tenere assieme l’unione, ma è costretto a misurarsi con gli effetti indesiderati della vittoria: il Labour in Scozia avrebbe di certo frenato la centrifuga che allontana Edinburgo da Londra (dopo tutto era stato Gordon Brown a far vincere il “no” al referendum), mentre ora le richieste di Sturgeon si faranno sempre più pressanti. In più, ora il premier è prigioniero delle promesse fatte agli euroscettici del suo partito. Non può più contare sugli eurofili Lib-Dem per sedare i bulldog alla sua destra. Insomma, tra i Tories sull’Europa torna ad affacciarsi una guerra civile, come ai tempi di John Major.

Dunque il referendum sull’Europa si avvicina. Si dice nel 2017, ma c’è chi ipotizza anche prima. Quanto allo Ukip, è probabile che trarrà giovamento dal momentaneo smacco del leader (Farage dice di essersi ritirato fino a settembre ma non gli rimane altra scelta che riproporsi, vista l’accozzaglia di lunatici cui ammonta il partito), come insegna la sconfitta dell’Snp al referendum sull’uscita della Scozia dall’unione.