Il senato ha appena concluso la riforma del suo regolamento, celebrata ieri per il secondo giorno dal presidente Grasso – «grande senso di responsabilità e spirito di collaborazione» – ed ecco che la camera deve riconoscere ufficialmente che non riuscirà a fare altrettanto. La notizia era annunciata già da metà novembre, ma ieri è arrivata la resa definitiva del relatore Pisicchio e con essa il rammarico della presidente Boldrini: «La mancata riforma del regolamento è motivo di rincrescimento per tutti quelli che hanno a cuore il buon funzionamento della democrazia», ha detto. Con evidente irritazione ha aggiunto: «Resta da capire con quale coerenza abbiano agito quelle forze politiche che, nelle stesse ore in cui si dichiaravano indisponibili alla camera, davano il via libera ad un analogo progetto di riforma al senato».

Il senato, che doveva essere cancellato dalla riforma costituzionale – «vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio che chiede la fiducia ai senatori», lo sfortunato auspicio di Renzi nel 2014 – è invece l’unico ramo del parlamento che è riuscito a darsi nuove regole. Alcune richieste a gran voce – come la stretta alla formazione di nuovi gruppi e al trasformismo parlamentare – alcune assai discutibili – come la riduzione dei tempi di intervento e l’eclissi dei lavori d’aula – altre sicuramente positive – come l’obbligo di discutere entro tre mesi le proposte di legge di iniziativa popolare. Modifiche simili alla camera sono state bloccate proprio a causa delle riforme volute da Renzi.

La prima bozza di una riforma complessiva del regolamento della camera, infatti, era pronta già nel secondo anno di legislatura. Ma l’arrivo del mega disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi che avrebbe stravolto il sistema parlamentare ha costretto i gruppi a fermare tutto. Quando la revisione della Costituzione è stata travolta dal referendum del 4 dicembre 2016, ecco che la modifica del regolamento è tornata di attualità. Non più come riscrittura generale, ma come intervento più puntuale sul genere di quello che nel frattempo si era rimesso in moto anche al senato. Ma alla camera i mesi successivi al referendum costituzionale sono stati quelli in cui si è consumato un altro strappo renziano, quello sulla legge elettorale (che invece è arrivata al senato blindata e immodificabile). Forza Italia, che al senato non si è messa di traverso ai lavori nella giunta per il regolamento, alla camera si è tirata fuori. E così ha fatto il Movimento 5 Stelle, la seconda forza politica sulla cui incoerenza si è riversata la rabbia della presidente Boldrini.

Per i grillini la riforma del regolamento doveva limitarsi agli interventi genericamente anticasta e limitativi del libero mandato parlamentare: il divieto di formazione di nuovi gruppi, la perdita degli incarichi per i deputati che lasciano un gruppo, l’impossibilità di trasferire il finanziamento pubblico da un gruppo a un altro.
Alcune di queste misure sono state adottate dal senato, assieme a molte altre che hanno l’obiettivo di sveltire i lavori della camera alta. Sacrificando di conseguenza lo spazio del dibattito e scaricando un altro po’ l’arma estrema dell’opposizione: l’ostruzionismo. In questo modo l’esame delle leggi a palazzo Madama, nella prossima legislatura, potrebbe diventare più rapido rispetto a Montecitorio e la maggioranza avrebbe al senato (al contrario di quanto è accaduto nelle ultime legislature) una vita un po’ più facile. Sempre che una maggioranza ci sia, cosa che le previsioni con la nuova legge elettorale al momento escludono (con l’eccezione di quella da incubo Lega-5 Stelle- Fratelli d’Italia).