Quando nel 2006 Terunobu Fujimori arriva alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, pochi si rendono conto dell’unicità dei suoi otto edifici, anche se gli organizzatori (The Japan Fondation) gli riconoscono un «fascino unico… non meramente ascrivibile al modernismo cardine del XX secolo». Risultò evidente che la loro scelta era audace rispetto al tema della mostra, la «meta-città». È singolare come dodici anni, ignorati molti degli irragionevoli progetti di «meta-città» esibiti, Fujimori sia ritornato in Laguna con la modesta cappella edificata nel parco dell’isola di San Giorgio Maggiore: tra tutte le nove che compongono il Padiglione della Santa Sede alla Biennale, la sola dotata di autentico significato simbolico e sacrale.
Nel periodo intercorso tra le due occasioni, la fortuna critica di Fujimori è molto cresciuta. Se pochi furono coloro che nel ’96 restarono divertiti dalla sua piccola scatola di cartone contenente, insieme al catalogo, i frammenti di un cedro carbonizzato, una corda di paglia da riso e un bambù, adesso, grazie al lavoro critico di J. K. Mauro Pierconti, si consolida intorno alla personalità di Fujimori un pubblico più vasto e non solo di curiosi estimatori.
La monografia Teruboru Fujimori Opere di architettura (Mondadori Electa, pp. 255, euro 59,00) contiene infatti , oltre alle fotografie di Akihisa Masuda, scritti e apparati che non solo ne fanno meglio comprendere l’opera, ma ci consentono di riflettere su una serie di questioni inerenti i rapporti dell’architetto giapponese con la tradizione, la tecnica, la società, e il confronto con l’Occidente post-capitalista.
Fino all’età di 45 anni Fujimori insegnava storia dell’architettura, quando gli chiesero di progettare un piccolo museo storico a Chino, un villaggio di montagna nella prefettura di Nagano, dove era nato nel 1946. Costruirlo non fu semplice. Decise di impiegare solo materiali naturali in ossequio alla famiglia Moriya, custode degli antichi reperti che rinviavano a un passato in cui la natura si venerava come un Dio. È nel museo Jinchokan Moriya Shiryokan che per la prima volta vediamo applicati parte dei «dodici punti» che costituiscono il lessico architettonico con cui Fujimori «prese le distanze» dai «cinque» di Le Corbusier.
Per l’architetto della Villa Savoye è noto che la pianta è libre perché senza vincoli murari, i pilastri in cemento sollevano l’edificio dal suolo, la facciata è indipendente dalla struttura, la finestratura è a nastro e infine il tetto è un florido giardino. Per Fujimori, al contrario, la pianta è bloccata e la verticalità del volume nega l’orizzontalità del piano, i pilastri sono tronchi di legno isolati e sporgenti dalla copertura, la separazione tra interno ed esterno è netta perché lo «spazio cavo» che va costruito non adotta la finestra come elemento di relazione, inoltre la vegetazione riveste interamente le superfici per integrarsi con l’involucro, come nella Collina dal «Tetto Erboso» (2012-’14) dell’azienda Taneya a Omihachiman.
Per queste e altre ragioni Fujimori è presentato come un antimoderno. «Ho cercato di oppormi alle correnti dell’architettura formatesi nel XX secolo – si legge nel suo «Dodecalogo» – risalendo il tempo al contrario, sono arrivato fino all’età della Pietra, che sta oltre la barriera rappresentata dalle piramidi egizie». È in quell’età che secondo lui avviene il primo «internazionalismo» della storia dell’architettura. L’altro coincide con l’epoca moderna, con l’utilizzo industriale di vetro, cemento e ferro. In mezzo ci sono 4500 anni di «stili di tutte le civiltà». L’insieme si può raffigurare come un «gustoso confetto» racchiuso in una carta che ha alle due estremità attorcigliati gli «internazionalismi» prima detti, simili per omogeneità di fini – «stesso culto, stessa religione, stessa architettura» – anche se non di mezzi.
Per Fujimori la questione è: come «richiamare nel tempo presente il primo»? La strategia è indagare a vasto raggio la Storia: innanzitutto il periodo Jomon (circa 2500-1500 a.C.), già riscoperto dal pittore e scultore Taro Okamoto (1911-’96), formatosi a Parigi, allievo di Marcel Mauss e vicino all’entourage di Bataille. Okamoto era interessato alle ceramiche esuberanti di decorazioni e simboli di quel periodo arcaico, opposte alla compostezza e razionalità dell’epoca Yayoi che venne dopo. Fujimori è convinto, come Okamoto, che «nel nostro passato si celano più radici di quante pensavamo». Occorre riscoprire l’energia che «cova sotto la cenere della cultura tradizionale», composta di sacro, miti e misteri.
Nella Camera del Tè, l’archetipo per eccellenza dell’abitazione, Fujimori individua il tema perfetto per la verifica delle sue tesi, modificando radicalmente il piccolo ambiente ideato e codificato dal monaco buddhista Sen no Rikyu nel VI secolo. Fino ad oggi ha sperimentato diversi modelli di Camera del Tè: isolata in un giardino, inserita sporgente o all’interno di un edificio. Dal 1997 (Casa Nira a Machida) ne ha realizzate una ventina: fantastiche e sospese su trampoli (Camera per un notte a Yugawara, 2003; Camera da Tè Tetsu a Hokuto, 2005) o a sbalzo su un tetto (Casa Yakosugi a Nagano, 2004-’07). Ha obbedito a Rikyu nel comporre spazi ridotti solo inserendo un focolare e una piccola entrata, nient’altro, mentre da Kakuzo Okakura ha cercato di farne sempre una «dimora della fantasia».
È come se però avesse afferrato dalla filosofia occidentale il concetto di «superamento» (Aufheben) che, riferito alla tradizione, ha significato per noi, da Hegel a Bloch, vederla conservata, negata per poi essere trasfigurata. D’altronde, come rileva Pierconti, la nostra influenza culturale è pervasiva almeno dal XIX secolo all’interno della società giapponese. Quanto poi sia altrettanto vigorosa la presa di distanza nei suoi confronti occorre valutarlo con attenzione.
È evidente, infatti, lo scetticismo di Fujimori verso un mondo risolto attraverso il dominio della tecnica, così come lo immaginò lui stesso nella sua tesi di laurea di un ponte pedonale a Sendai (1971), in perfetta aderenza con i mondi futuribili degli Archigram o del movimento Metabolista, di Tange o Isozaki. Tuttavia, di là del «primitivo» e del «fiabesco», l’architettura di Fujimori è come se si facesse severa interprete del nostro presente. Richiama una coscienza della rovina e della catastrofe sempre imminente, quella che condiziona il nostro vivere sul pianeta. È questo il motivo della sua effettiva attualità e del nostro vivo interesse.