Un giorno alle dimissioni di Napolitano, il che significa, a tutto concedere – ma a Renzi sarà concesso – sedici giorni alla prima convocazione delle camere in seduta congiunta con i delegati regionali per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un conto alla rovescia che vale soprattutto per la riforma costituzionale (alla camera) e la nuova legge elettorale (al senato): arrivare alle trattative per il Quirinale con le due leggi approvate (anche se non ancora in maniera definitiva) è un vantaggio al quale il presidente del Consiglio non vuole rinunciare. Dunque la solita fretta. Con tanto di minaccia che se non si fa così si va al voto anticipato – minaccia ormai abituale, eppure stavolta particolarmente incredibile visto che mancherebbe anche il capo dello stato che dovrebbe sciogliere le camere. E invece alla camera non si corre affatto.

Ieri sono stati votati – e bocciati – solo cinque emendamenti al disegno di legge di revisione costituzionale, ne restano circa 1.250. Un successo dei deputati del Movimento 5 stelle, e in parte minore vista la consistenza del gruppo di quelli di Sel, che intervenendo «in dissenso» hanno rallentato la discussione, senza consumare i tempi assegnati al loro partito. Tanto che la «frusta» del Pd, Rosato, ha protestato con la presidente Boldrini: quei tempi andrebbero divisi tra tutti i gruppi. Ma il Pd non ha nessuna intenzione di utilizzare i suoi, sovrabbondanti: la riforma è accettata con rassegnazione più che condivisa da buona parte del gruppo, la prova della tenuta della minoranza è lontana da venire (sarà, forse, sulle disposizioni transitorie). Lo sforzo ostruzionistico, però, servirà solo a rimandare il momento dell’approvazione, e a drammatizzarlo. I tempi infatti sono contingentati, oltre le 80 ore di dibattito non si andrà, oppure la presidente concederà qualche sforamento ma assai difficilmente l’ultimatum di Renzi non sarà rispettato. Sarà evidente, però, che la riscrittura di un terzo della Costituzione è fatta con una forzatura solo per stare nei tempi che fanno comodo a palazzo Chigi. E sarà evidente ancor di più al senato, dove la fretta nell’approvare la legge elettorale è anche meno giustificabile, vista che l’Italicum (l’ha detto il governo) sarà congelato per un anno o due.

E le forzature già si vedono. Ieri si è riunita la giunta per il regolamento della camera, il Pd e Forza Italia hanno fatto blocco per escludere il voto segreto su tutta una serie di emendamenti delicati per la tenuta del «patto del Nazareno». Malgrado il regolamento di Montecitorio preveda la possibilità dello scrutinio segreto quando si discute di legge elettorale, la presidente Boldrini ha aderito alla tesi del Pd e di Fi che sui principi generali del procedimento elettorale il voto deve restare palese. Dunque solo per pochi e innocui emendamenti – tutele delle minoranze linguistiche – si voterà a scrutinio segreto. Il deputato grillino Toninelli ha raccontato in aula di aver sentito un collega di Forza Italia esultare per la decisione: «Abbiamo salvato il patto del Nazareno». Vero: per fare male davvero le opposte minoranze (bersaniani nel Pd, fittiani in Forza Italia) avrebbero avuto bisogno dell’anonimato.
E invece no, l’ultima speranza delle opposizioni è quella di far saltare i gangheri ai «pattisti» e provocare una delle già vissute risse parlamentari. Ieri c’erano quasi riusciti, con il relatore renziano Fiano che dopo il ventesimo intervento grillino ha chiesto anche lui un po’ di tempo. Per dire che «noi non stiamo uscendo dalla democrazia, stiamo solo cambiando la struttura istituzionale della democrazia»..