Lo scorso 7 gennaio, la Cambogia ha festeggiato il trentacinquesimo anniversario della liberazione dall’orrendo regime dei khmer rossi in pieno clima tensione sociale. Solo quattro giorni prima, quattro lavoratori degli stabilimenti tessili del Canadia Insutrial Park in Phnom Penh sono stato uccisi dai soldati governativi che hanno aperto il fuoco sulla folla durante uno sciopero. Un gesto apparentemente assurdo alla base del quale stanno fortissimi interessi economici.

Sebbene la sua economia cresca dal 2004 a un ritmo medio dell’8%, la Cambogia rimane uno degli stati più poveri del sud est asiatico. Oltre dieci milioni di cambogiani vivono in zone rurali, arrangiandosi alla meno peggio con attività individuali o famigliari come il trasporto di merci da villaggio a villaggio, vendita di cibo di strada, agricoltura, pesca o artigianato. Grazie al forte sviluppo, il tasso di povertà è diminuito drasticamente nel corso degli anni, ma la malnutrizione compromette ancora la crescita del 40% dei bambini, e il 55% di quelli sotto i cinque anni soffrono di anemia.

Forte di una disponibilità di manodopera a bassissimo costo, il comparto tessile, che occupa circa 600.000 persone di cui la maggioranza donne, è il traino di tutta l’economia cambogiana e con i suoi 5.07 miliardi di dollari di fatturato estero nei soli primi undici mesi del 2013 (+22% rispetto allo stesso periodo nel 2012) rappresenta il 70% dell’export del paese. Il minimo sindacale in Cambogia (aumentato a 100 dollari dopo i recenti scontri, contro i 160 richiesti dai lavoratori) è tra i più bassi tra quelli dei paesi manifatturieri, superiore soltanto a quelli di Bangladesh (72$) e Birmania (57$), e grazie anche alla vicinanza strategica con il grande mercato cinese attira investimenti da tutto il mondo.

Da una parte, abbiamo quindi i lavoratori che a fronte del fortissimo aumento di fatturato del settore pretendono anche per loro un miglioramento delle condizioni di vita (l’Asian Floor Wage Alliance ha stimato in 283$ il reddito minimo di sopravvivenza in Cambogia), dall’altra il governo di Hun Sen, pressato dalla potentissima associazione degli industriali tessili (GMAC), terrorizzato che un aumento del costo della manodopera possa portare a una diminuzione delle commesse o, ancora peggio, spingere le grandi multinazionali a spostare la produzione in paesi più “convenienti”.

Gli scioperi nel 2013 sono stati oltre 140, contro i 120 del 2012. La GMAC ha calcolato il danno economico in circa 200 milioni di dollari, e prevede una diminuzione degli ordine pari al 30% nel caso in cui la situazione non dovesse stabilizzarsi. Qualcuno è arrivato anche a chiedersi, nel caso in cui la richiesta dei lavoratori di 160 dollari al mese dovesse essere accettata, quale potrebbe essere l’impatto sulle forze dell’ordine o sui laureati che guadagno meno di 100$ al mese, mentre alcuni proprietari di case in cui abitano i lavoratori hanno approfittato dell’incremento delle tariffe minime per aumentare gli affitti di 5 dollari. I morti durante gli sgomberi dell’esercito sono stati discretamente definiti dalla GMAC come “danni collaterali”.

Ma di chi è effettivamente la proprietà delle industrie tessili cambogiane? Solo il 5% è in mano a industriali khmer: il 28% è di proprietà taiwanese, il 19% cinese, il 17% di imprenditori di Hong Kong e il 13% fa capo a sud-coreani. Un’interessante inchiesta del Global Post a firma di Geoffrey Cain, ha parlato proprio del presunto ruolo nella repressione degli scontri del Canadia Park del governo di Seoul che, grazie a un lavoro diplomatico e di lobbying, sarebbe riuscito ad assicurarsi un trattamento di sorveglianza speciale per le fabbriche di proprietà dei suoi cittadini, che avrebbero chiesto e ottenuto l’intervento dei militari duranti gli scioperi. L’articolo cita a riguardo un filmato degli scontri tuttora visionabile su internet nel quale appare uno stemma sud-coreano sulla divisa di uno dei soldati dell’esercito. Nonostante le pronte smentite del Ministero degli Affari Esteri sud-coreano, rimane il dubbio che le decisioni sul destino dei lavoratori del tessile non passi solo dalle mani Hun Sen.