Quando mai si sono viste lastre di ghiaccio galleggiare per le strade di Roma come fossero fiordi dell’Artico? Sulla città abbiamo testimonianze scritte che coprono 2500 anni. Non è mai successo. Quando mai abbiamo assistito all’alternarsi, nel giro di poche ore, di caldi tropicali, tempeste di pioggia e vento che mettono a soqquadro intere regioni? Quando mai abbiamo visto tante frane, tanti straripamenti, tanti alberi abbattuti in così pochi giorni? Se poi alziamo lo sguardo più in là, le cose stanno anche peggio: l’Africa si sta desertificando; Stati Uniti, America centrale e sud est asiatico sono sempre più spesso sconvolti da uragani. Persino il Mediterraneo, che non li aveva mai conosciuti, ha avuto il suo primo tifone quest’estate. E poi, i ghiacciai si ritirano, le calotte polari si sciolgono, il permafrost libera milioni di tonnellate di metano (un gas di serra venti volte più potente della CO2). Cambieranno le correnti marine, a partire da quella del Golfo che tiene al caldo l’Europa centro-settentrionale; è già cambiato il regime dei monsoni, avanza il deserto mentre si moltiplicano le alluvioni. L’acqua, quella buona, quella da bere, è sempre più scarsa.

Abbiamo massacrato la Terra contando sulla protezione del cielo. Ma adesso il cielo moltiplica l’impatto dei disastri. Quel che vediamo ora è un anticipo delle condizioni in cui saremo costretti a vivere.
Di qui a pochi anni, forse anche solo due o tre, le cose che tengono impegnata l’arena politica e le rispettive tifoserie, i decimali di punto di deficit, di Pil, di vera o finta occupazione, gli indici di borsa, la “crescita”, le grandi infrastrutture, usciranno di scena per far posto a raffiche di divieti, di misure improrogabili per fare fronte alla moltiplicazione dei disastri.

Il peggio è che, se continua questo andazzo, a occuparsi di questi problemi, cioè della riorganizzazione della vita quotidiana, se non della sopravvivenza, saranno le attuali classi dirigenti della politica, dell’industria e dell’accademia, ciniche, ignoranti, corrotte, inette e impreparate; tanto quanto sono invece pronte, lancia in resta, a combatterne non le cause ma le conseguenze: non un sistema produttivo che ha messo il pianeta alle corde – quello non si tocca! – bensì il flusso, destinato a crescere come uno smottamento di tutto il pianeta, delle persone che si saranno messe in cammino (non più profughi né migranti, ma semplice people on move) per cercare un posto dove vivere sia ancora possibile. Con migliaia di marce come quella che la carovana partita dall’Honduras per raggiungere a piedi gli Stati Uniti ben rappresenta: un immenso Quarto stato di Pellizza da Volpedo dei giorni nostri.

Se le agende della politica e dell’industria, volenti o nolenti, saranno costrette a cambiare nel giro di pochi anni, non altrettanto si può prevedere però per le abitudini e l’orizzonte mentale di coloro che quel cambiamento dovrebbero guidare; né si vede all’orizzonte qualcuno in grado di sostituirli. Anzi sì, ma solo in peggio. E anche questo lo abbiamo sotto gli occhi. Come non vedere un nesso tra la mancanza di futuro che il peggioramento della vita di tutti sta diffondendo sull’intero pianeta e l’avanzata delle destre, o dei fascisti in corso un po’ dappertutto? Quella che con l’elezione di Trump forse è stata considerata un errore di rotta, ma che ora si comincia a considerare altrimenti. Perché loro sì, hanno la soluzione in tasca: ordine e repressione all’interno; tallone di ferro contro le rivolte per le condizioni di vita e la rovina dei territori. E guerra alla “gente in cammino” che si presenterà sempre più spesso, e sempre più numerosa, disarmata, miserabile, affamata alle porte dei muri che i paesi meno danneggiati dal disastro ecologico stanno erigendo per tenerne fuori tutti gli altri. Ma nessuna di quelle misure inciderà sulle cause dei malanni che ci aspettano. A quelle dobbiamo pensarci noi.

Le nostre città, i paesi, le campagne, ma anche gran parte del cosiddetto Sud del mondo – il più colpito, già oggi, dai cambiamenti climatici – sono piene di donne e uomini di buona volontà che si arrabattano per cercare di aiutare le persone che più ne hanno bisogno; e con ciò di aiutare anche se stesse a sottrarsi alla cultura della competitività e del successo a spese altrui, promossa dalle classi al potere. Per questo Riace è un esempio così temuto e perseguitato. Ma sono, quelle città, quei paesi, quelle campagne, piene anche di tecnici, di esperti, di persone piene di esperienza, per lo più scartati, messi ai margini o svalorizzati dai processi di selezione delle classi dirigenti; ma che sono, loro sì, in grado di accompagnare, con le loro competenze, un cambio di rotta e la riorganizzazione delle attività economiche e della vita associata, territorio per territorio. Sono queste le “classi dirigenti” che devono prendere in mano le redini del cambiamento, mettersi in rete, prospettare delle soluzioni praticabili a livello locale, ma replicabili, e per questo globali. Senza aspettare un deus ex machina – un partito, una lista, una coalizione politica – che arrivi a risolvere i vostri problemi. Quello, caso mai, arriverà dopo. Come la civetta di Minerva, che si leva solo al calar della sera.