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Cambiare restando uguali

Book Note Nel frastagliato continente della popular music, dove è dato trovare tutto e il proprio contrario, spesso un principio unificante c’è: la fedeltà a se stessi nei decenni. Che sia opportunismo […]

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 16 luglio 2022

Nel frastagliato continente della popular music, dove è dato trovare tutto e il proprio contrario, spesso un principio unificante c’è: la fedeltà a se stessi nei decenni. Che sia opportunismo tattico e strategico, o dedizione assoluta a una porzione di estetica musicale cui si sia dato un contributo, poco importa. Pensate a gruppi diversi come i Jethro Tull, i Pearl Jam, i Sigur Rós, gli Status Quo: coprono un range di decadi superiore al mezzo secolo, e ognuno di essi, a modo proprio, ha saputo tenere sempre la barra dritta su cosa fosse lo stile, la polpa e la sostanza della loro musica. Poi, forse più raro, ci sono gruppi che nascono in un modo, si sviluppano in un altro, e doppiano le boe decennali continuando al caso a cambiare, fatto salvo il lasciare qualche elemento di riconoscibilità. Un caso potrebbero essere i King Crimson di Robert Fripp. Non s’è citato il nevrotico compositore dalle massime sapienziali a caso: Fripp è sempre stato un ottimo amico del gruppo cui dedica un bel libro Paolo Carnelli, Yes/Gli anni d’oro 1969-1980 (Tsunami). Si apprende in queste pagine che gli Yes erano nati come cover band. Poi, con uno scatto bruciante, sono diventati uno dei quattro/cinque gruppi simbolo della stagione più impegnativa, contraddittoria e stimolante assieme del prog rock, e un loro disco da cinquantennale oggi, Close to the Edge, potrebbe essere considerato tra gli apici di tale complessa musica immaginifica. Con un accorto lavoro di cucitura di testimonianze incrociate, Carnelli, per così dire, dà voce alle voci Yes. Ne esce una disamina approfondita e calzante degli undici anni iniziali, quello che indica come periodo aureo. Parzialmente vero, ma dischi come Talk o Keys to Ascension allora, dove li mettiamo? Davvero certe storie si possono fermare col calendario e l’orologio, o imbalsamare nelle «età dell’oro»? Di sicuro ha avuto precisi connotati cronologici la storia dei Kina, bruciante, intransigente gruppo punk (dunque l’anti-prog!) e anarchico «storico» attivo tra l’82 e il ’97. Arrivavano da Aosta, che sembrava il posto meno adatto nel pianeta per il punk, si trovarono nella stessa etichetta dei gloriosi Franti, al loro primo concerto milanese qualcuno disse loro: «sembrate gli Hüsker Dü», ed era un complimento meritato. In Questi anni, libro e cd (Stella Nera) troverete un’ora di ruggenti registrazioni dal reunion tour del 2019, e un dvd magnifico con il docufilm di Gian Luca Rossi Se ho vinto se ho perso: una storia significativa in parole e note che ha ancora molto da dire.

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