Se ne andrà, non se ne andrà? Il tormentone cinese è cominciato, e si dipanerà per tutta l’estate, fino all’inizio dell’autunno. Al centro dell’interrogativo, le sorti dell’attuale boss supremo di Pechino, Jiang Zemin che, pare, ha intenzione di mandare per aria l’«ordinata successione» e il trasferimento dei poteri alla Quarta Generazione di leader, facendo rivoltare nella tomba Deng Xiaoping, che aveva dato disposizioni con nomi e cognomi assai prima della morte (avvenuta nel 1997), con ogni probabilità a ridosso dello shock di Tiananmen.

Era stata in quella occasione, infatti, che le divisioni all’interno del partito avevano reso ancor più complicata la gestione della prima grande rivolta dell’era delle riforme denghiste, soffocata poi nel sangue. Il più vasto cambio generazionale di leadership dal 1949 doveva avvenire alla fine del prossimo settembre, durante il 16esimo Congresso del Pcc, già etichettato come «storico» proprio per la portata dei cambiamenti che dovrà introdurre. (…)

Ma cosa è accaduto? Corre voce insistente che Jiang Zemin, l’attuale segretario del partito, nonché presidente nonché capo della potente commissione militare, voglia continuare a mantenere il controllo sul partito. Restando alla segreteria per un altro mandato o, se le resistenze in proposito fossero troppo forti, rispolverando magari la storica carica di presidente che fu di Mao. Il che limiterebbe comunque il successore. La questione rende in questi giorni ancora più calda l’atmosfera di Beidaihe, la località di villeggiatura sulla costa a 280 chilometri da Pechino dove da cinquant’anni, ogni anno, i vertici cinesi si riuniscono in modo informale per regolare i loro conti e tessere trame fra la spiaggia, la pineta e le villette coloniali occidentali del secolo scorso.

Fino a qualche giorno fa si ipotizzava che il potere sarebbe eventualmente restato nelle mani di Jiang solo sotto forma di controllo della Commissione militare mentre per regole costituzionali il leader non avrebbe potuto mantenere la presidenza e per patto politico avrebbe dovuto lasciare la segreteria del partito. Suo delfino designato, Hu Jintao, 59 anni, già oggi vice di Jiang alla presidenza e alla commissione militare, e membro del comitato permanente del Politburo, luogo del vero potere. Niente di ufficiale, ovviamente, è emerso in proposito. Né per confermare la successione né per smentirla.

In questo senso, nessuna modernizzazione è riuscita a rendere più trasparenti le pratiche del potere cinese, che anzi si sono fatte ancor più involute, dati gli intrichi di un regime che, sedicente comunista, galoppa a rotta di collo verso una delle liberalizzazioni economiche più feroci mai viste dalla nascita del capitalismo. Le illazioni nascono da alcune pesanti manovre della corte di Jiang volte a convincere i vertici militari e politici che il momento non sarebbe propizio per un passaggio radicale del potere come quello previsto: la testa del partito, la presidenza, il primo ministro, il presidente dell’Assemblea del popolo, metà del Politburo.

Tutto questo bendidio è destinato a passare alla prima generazione di leader non legittimata dalle lotte rivoluzionarie, decisamente meno ideologica dei suoi predecessori. Una schiera di tecnocrati maturata politicamente in carriere che dal livello locale li hanno portati al potere centrale. Pragmatici, nazionalisti e, per quel poco che se ne sa, impegnati a continuare la rotta intrapresa. Che cosa teme allora Jiang? Sembra che non ami molto Hu Jintao, al quale preferisce sicuramente il suo braccio destro Zeng Qinghong, direttore del dipartimento organizzativo del partito. Da qui a buttare per aria una transizione concordata con le altre fazioni, tuttavia, ce ne corre. Ma non c’è dubbio che sia un vero scontro politico quello in atto a Pechino, e momentaneamente a Beidaihe. Meno chiara è la posta in gioco e le eventuali conseguenze per il futuro della Cina. (…)

Il fatto è che l’ultimo anno è stato foriero di delusioni per le ambizioni di Jiang come pensatore e stratega politico. La più forte sembra essere venuta quando, l’1 luglio scorso, in un discorso destinato a diventare una pietra miliare, chiese apertamente l’ammissione degli imprenditori privati e dei capitalisti nel Partito. Inevitabile sviluppo della sua teoria delle «Tre Rappresentanze», secondo la quale il Pcc deve rappresentare anche le nuove forze sociali emergenti dalle riforme economiche, l’esplicita richiesta ha suscitato tuttavia opposizioni e perplessità anche oltre la sinistra del partito, che tuttavia è stata dallo scorso anno oggetto di una repressione mirata. (…)

Ma l’aspetto più interessante della vicenda è stato segnalato da Asia Times Online, di proprietà taiwanese ma con base a Hong Kong che il 23 ottobre del 2001 scriveva: «Senza clamore e senza che se ne facesse parola pubblicamente, il Pcc ha ripudiato l’audace piano del suo leader (…) di aprire il partito a capitalisti ed imprenditori». E proseguiva: «Ding Guagen, capo della propaganda e grande protetto di Jiang, ha ricevuto i rimproveri più forti per aver cercato di sopprimere la discussione mentre il partito deve ancora prendere una decisione». Sempre in quel periodo, 14 comunisti della vecchia guardia hanno scritto una lettera a Jiang accusandolo di violare l’unità del Pc, con sistemi che che «potrebbero condurre la Cina a un collasso simile a quello dell’Unione sovietica». (Tutta questa documentazione è stata riportata dalla Monthly Review del maggio 2002).

Data l’opacità della dialettica politica cinese, poco si può azzardare a evincere da questi episodi. (…) Circa 300mila imprenditori privati sarebbero già membri del partito (secondo la semi-ufficiale Federazione dell’Industria e del Commercio). Nello stesso momento in cui le classi sociali sconfitte dalla transizione economica (i lavoratori nominalmente rappresentati dalla loro avanguardia, il partito) non sanno letteralmente a chi appellarsi per vedere rispettati diritti elementari, in primis quello di non essere sfruttati a morte. C’è tuttavia più di un dubbio che un simile scontro di classe possa essere affrontato, rappresentato e risolto da una qualunque delle componenti dell’attuale Pc cinese.