È durata due mesi la trattativa tra la ministra della giustizia e la sua maggioranza sulla riforma del processo penale. Quasi tutti spesi a convincere il Movimento 5 Stelle che lo stop alla prescrizione così come realizzato nel Conte uno e difeso nel Conte due andrà modificato. Perché il rischio che conduca a processi senza fine c’è ancora e l’obiettivo della riforma – un pilastro del Pnrr – è opposto: ridurre i tempi della giustizia penale del 25% in tre anni. Ieri un contributo alle tesi di Cartabia lo ha dato indirettamente la Corte costituzionale, che ha bocciato un provvedimento di Bonafede proprio sulla prescrizione. E domani il pacchetto di emendamenti governativi al processo penale può arrivare in Consiglio dei ministri. Passaggio insolito ma giudicato necessario per mettere in sicurezza l’iter della riforma. Che è ancora lungo. Oggi in una sorta di pre-consiglio ai massimi livelli, dovrebbe essere Draghi a stringere con i ministri 5 Stelle.
Lo stallo è durato a lungo, tanto da mettere in dubbio che il provvedimento – che avrebbe dovuto essere votato dall’aula della camera per i primi di agosto – possa per quella data venir fuori dalla commissione. Il punto di caduta, da verificare tra oggi è domani, è ancora quello indicato negli emendamenti di Pd e Leu: un innesto della prescrizione processuale sull’impianto del lodo giallorosso Conte bis. Una sorta di clausola di sicurezza per chiudere comunque il processo quando sfora un termine massimo in appello o Cassazione.

Intanto ieri la Corte costituzionale ha cancellato una delle misure emergenziali alle quali era ricorso l’ex ministro della giustizia Bonafede durante la prima ondata del Covid. La censura riguarda proprio la sospensione della prescrizione. La Corte ha bocciato la norma in base alla quale fino al 30 giugno del 2020 è bastato lo stop prudenziale delle udienze deciso dal capo dell’ufficio giudiziario per provocare anche la sospensione dei termini della prescrizione. In concreto questo ha voluto dire che alcuni imputati non si sono visti riconoscere il non luogo a procedere, da qui i ricorsi e la decisione della Consulta.

La norma censurata, contenuta nel decreto legge n° 18 del marzo 2020, è in realtà il risultato di un’incredibile successione di decreti, almeno cinque. Alcuni dei quali hanno assorbito e fatto decadere decreti ancora in fase di conversione, la nota tecnica dei “decreti minotauro” che ha contribuito alla confusione normativa durante la gestione dell’emergenza da parte del governo giallorosso. Il termine di sospensione dei processi con il corollario della sospensione anche della prescrizione (che nel nostro ordinamento è una norma penale, dunque non suscettibile di applicazione retroattiva) è via via slittato dal 22 marzo fino al 30 giugno. E mentre nei primi provvedimenti la sospensione era prevista per norma di legge, negli ultimi questa decisione che ha ricadute pesanti sul destino degli imputati è stata affidata discrezionalmente ai capi degli uffici. Da qui la sentenza della Corte costituzionale, che ha ritenuto «non sufficientemente determinata» la «fattispecie estintiva» della prescrizione e dunque non conoscibile e valutabile in astratto dall’imputato. La sentenza della Consulta nella sostanza censura un atteggiamento troppo disinvolto nei riguardi dell’istituto della prescrizione, che è poi lo stesso che ha portato il governo Conte 1 (con Bonafede) a cancellare del tutto la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e il governo Conte 2 (ancora con Bonafede) ad attenuare ma anche a confermare questa impostazione. Che è poi quella con la quale si è dovuta confrontare negli ultimi due mesi la ministra Cartabia.