Il legame fra cambiamenti climatici e povertà è indiscutibile. L’innalzamento delle temperature, l’avanzare della desertificazione, l’intensificarsi di fenomeni estremi come le alluvioni hanno un impatto maggiore sulle comunità strettamente dipendenti dalle risorse naturali, con meno possibilità di protezione e scarse alternative a cui ricorrere.
Queste popolazioni, vittime di un meccanismo di cui non sono responsabili, sono ormai costrette a spostarsi per incontrare condizioni ambientali che gli permettano la sopravvivenza.

Occuparsi della relazione fra mutamenti climatici e migrazioni forzate, delle loro caratteristiche ed entità è una priorità del nostro tempo. L’economista politica Cristina Cattaneo ha all’attivo diversi studi in questo campo e descrive un fenomeno complesso, confermato dalle analisi scientifiche ma dal futuro incerto. I cambiamenti climatici hanno ripercussioni diverse, possono produrre fenomeni repentini come un’inondazione o più diluiti nel tempo come la siccità, di conseguenza le risposte dell’ambiente e dei suoi abitanti sono diverse in modalità e tempi.

I risultati delle sue ricerche in alcuni casi sono in controtendenza con quello che superficialmente viene percepito e spesso strumentalizzato: rispetto alla quantificazione degli spostamenti, la ricercatrice sottolinea che i dati scientifici non supportano ancora con coerenza l’ipotesi di aumenti vertiginosi di flussi migratori provocati dai cambiamenti climatici; al contrario, aumentando, purtroppo, la povertà, diminuirà la capacità migratoria perché spostarsi ha un costo: non a caso la letteratura mostra che dagli anni ’60 ai 2000 sono aumentate le migrazioni da paesi a reddito medio, mentre i flussi migratori dai paesi più poveri si sono ridotti.

Nemmeno sembrano destinate ad aumentare i flussi dal sud al nord del mondo, che in generale sono una percentuale molto ridotta rispetto al totale, mentre a prevalere sono le migrazioni, anche di massa, all’interno dello stesso paese o fra paesi vicini.

Un evento ambientale estremo sul quale invece si hanno meno incertezze è quello dell’innalzamento del livello degli oceani, essendo un fenomeno irreversibile e precisamente localizzato: entro la fine del secolo il livello dei mari aumenterà di 0,5 metri, e le persone in tutto il mondo che vivono oggi in aree a meno di un metro sopra il livello del mare sono 150 milioni. Un dato interessante emerge poi dall’analisi fra cambiamenti climatici, migrazioni e conflitti: anche qui contrariamente a quello che si può pensare le migrazioni, in media, disinnescano il conflitto; in paesi come Afghanistan, Bangladesh, Cambogia, Etiopia, Madagascar, Myanmar, Sierra Leone, essendo poveri e con bassi flussi migratori, il rischio di conflitto per aumento di temperatura è molto più alto rispetto ad altri paesi. E questo in un’ottica di gestione della sicurezza mondiale è un messaggio molto chiaro.

I risultati di questo tipo di ricerche sono in linea con testimonianze come quella di Hindou Oumarou, fondatrice dell’associazione delle donne indigene del Chad. Hindou è una Mbororo, gruppo etnico nomade, e si batte per i diritti dell’ambiente e delle popolazioni indigene le quali in virtù della loro stretta relazione con la natura, sono i più fragili di fronte ai cambiamenti climatici. La sua gente, che vive di agricoltura e allevamento nell’area del Sahel, è costretta a spostarsi sempre di più alla ricerca di acqua. I cambiamenti climatici hanno un impatto negativo non solo su salute e sicurezza alimentare, ma anche sulla società: la scarsità delle risorse è spesso fonte di conflitto fra le diverse comunità.

La migrazione, interna o verso altri paesi, è l’estrema ratio: nessuno vorrebbe lasciare la sua casa e la sua famiglia; per questo, dice, devono aumentare progetti ed investimenti per lo sviluppo all’interno dei paesi in sofferenza, mentre a livello internazionale, si devono ridurre le emissioni.

Lo spostamento forzato per motivi ambientali apre anche la questione della mancanza di un riconoscimento giuridico da parte del paese ospitante. La convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, infatti, non contempla la categoria di «rifugiati climatici». La sistematizzazione di questa condizione non è semplice in quanto spesso intercetta anche altri fattori, ma appare chiaro che definirli solo «migranti economici» è una semplificazione anacronistica.
A questo proposito, è di poche settimane fa una innovativa ordinanza del Tribunale dell’Aquila che riconosce a un cittadino del Bangladesh la protezione umanitaria con motivazioni che fanno riferimento alle problematiche legate al clima. Una grande soddisfazione per l’avvocato Chiara Maiorano, che non solo è riuscita a rovesciare un precedente rigetto di richiesta d’asilo ma ha fatto fare un passo avanti alla giurisprudenza nel suo compito di garante del diritto a una vita dignitosa.

Chiara Cattaneo e Hindou Oumarou parteciperanno domani e sabato al Festival dei Diritti Umani.