Raccontare, riflettere su un mito contemporaneo è sempre impresa difficile, ancora di più quando, come nel caso specialissimo di Maria Callas, abbiamo a che fare non con una, ma con due persone. Ci sono sempre due Callas infatti, come forse inconsciamente rivelava lei stessa in poche frasi colte al volo al termine della Medea di Cherubini alla Scala, nel dicembre 1961, ultima sua produzione nel teatro milanese: «più la Maria Callas diventa quella povera Callas, più paura ha». Maria e La Callas. La professionista indefessa e la tigre del palcoscenico.

Il soprano drammatico e il soprano leggero. I fiori e i fischi. Amina e Medea. La ragazzona grassa e la silfide elegantissima. Lucia o Isotta. La collega generosa e la diva superba. Meneghini e Onaniss. La ragazza americana, la cantante greca, il soprano italiano (qui sono addirittura tre!). La regina della Scala e la silenziosa dama di Parigi.

Ce n’è sempre stato per tutti, soprattutto per i rotocalchi. Ancora oggi, a quarant’anni dalla morte, il 16 settembre 1977, si fatica a farsi largo fra tanti ritratti parziali e illusori, barboncini, gioielli, diete, crociere, scandali e eventi mondani, liti epiche e interviste posatissime, un equivoco che da decenni inganna drammaturghi, cineasti e scrittori, mentre ogni anno che passa l’eredità di quella voce non arretra, caso unico, dato che la cultura contemporanea usa confinare il cantante lirico in un mondo elitario, abitato da iniziati, appassionati o esperti, essenzialmente ignoto.

Eppure a ben vedere la verità è una sola. Quindici anni di intensissima carriera, con un’appendice di qualche recita e qualche registrazione discografica tardiva, faticosa ma preziosissima, sono la vera eredità senza cui il baluginio delle altre Callas non ha alcun senso. Quindici anni in cui una sconosciuta greco-americana, grazie al favore delle stelle, agli incontri giusti, a una maledetta voglia di arrivare, a un dono importante, a una musicalità innata e uno studio indefesso, ha impresso nuovamente vita, pregnanza e senso stilistico a un repertorio dimenticato o frainteso, il belcanto romantico.

Ha resuscitato quasi per sortilegio opere perdute, Anna Bolena, il Pirata, Armida, il Turco in Italia, Medea, ha rivoluzionato l’interpretazione di titoli del melodramma come Norma, Tosca, Lucia di Lammermoor, La traviata, I puritani, Sonnambula, Macbeth, Nabucco, ha influenzato generazioni di artisti che hanno poi dato vita alla rinascita del belcanto e di Rossini, a una nuova concezione dell’artista lirica come attrice, grazie a alcuni spettacoli memorabili. Un’impresa teatrale e musicale gigantesca di cui hanno scritto Montale, Fedele d’Amico e Arbasino, certo non le rubriche mondane e gli istant-book spazzatura.

La Callas che conta è soltanto quella, raccontata da una messe di registrazioni discografiche e video, in studio e dal vivo, forse meno ricca di quel che sarebbe potuta essere ma comunque impagabile. A testimoniarlo è la proporzione di quanti amano Maria Callas e sentono di conoscerla senza averla mai incontrata, numero che cresce ogni giorno. Un’eredità vasta abbastanza che a ripercorrerla tutta vien voglia, grati, di ricominciare per ritrovarla da capo, nuova e ricchissima.