I giovani lavoratori sono tornati in piazza, e il sindacato – nonostante gli attacchi subiti e tante pecche – è ancora vivo. Una manifestazione riuscita quella di ieri a Roma, uno sciopero con migliaia di operatori dei call center che ha riempito i Fori Imperiali. «No delocalizzazioni», «Basta appalti al massimo ribasso», le parole d’ordine, in una battaglia che vede alleate, almeno su alcuni punti, anche le imprese. Tra i più agguerriti, gli addetti siciliani e calabresi: le cuffiette hanno attecchito molto al Sud, grazie agli incentivi e a costi più bassi, ma proprio loro sono oggi più a rischio.

La maglietta di ordinanza ha un «Urlo» di Munch con le cuffiette. Rosi, di Almaviva Palermo, dice: «Non siamo stanchi di prenderci parolacce dai clienti, ma di sentirci dire: “finalmente ci risponde un operatore italiano”». Natale, di Almaviva Catania, fa il verso al premier Renzi: «Dice di essere veloce. Ma qui ci sono lavoratori che risolvono un problema in 3 minuti e 15. Ora tocca a lei rispondere velocemente ai nostri quesiti». Fabio, di Teleperformance Taranto, chiede di «poter continuare a vedere un futuro in una città che vive già tanti drammi».

Va detto che in piazza erano presenti soprattutto i dipendenti dei grossi gruppi in outsourcing – da Almaviva a Comdata, da Call&Call a Teleperformance – quelli cioè che godono (non tutti, poco più di una metà del totale) di contratti regolari e a tempo indeterminato. Quindi i più facili da organizzare sindacalmente – e infatti la piazza era fittissima di bandiere, non solo Cgil, Cisl e Uil, ma pure Cobas e Ugl – ma anche quelli più esposti alla perdita del posto di lavoro a causa della globalizzazione. Ottantamila i lavoratori del settore, 1,3 miliardi il fatturato.

Le imprese: l’estero è essenziale

Tante imprese oggi delocalizzano: Albania, Romania, Tunisia, dove trovi addetti che parlano in modo decente l’italiano. E che ovviamente costano molto meno. Come ci spiega Paolo Sarzana, responsabile comunicazione di Teleperformance, multinazionale francese che ha 3500 dipendenti in Italia, 2000 dei quali in un grosso call center di Taranto. «In Italia il costo orario di un addetto è di 17.80 euro, in Albania di 5. Ciononostante noi vogliamo restare in Italia, ma il governo deve metterci nelle condizioni per farlo».

Teleperformance ha call center in Romania e Albania, ma assicura che non tolgono lavoro all’Italia, ma che anzi possono portarne di più: «Qualche anno fa abbiamo vinto un appalto Alitalia, che aveva costi proibitivi per gli standard nazionali – conclude Sarzana – Siamo riusciti a prenderlo perché abbiamo dato il 60% dei volumi agli addetti albanesi. Il restante 40% per gli italiani, diversamente non lo avremmo mai avuto».

La richiesta principe, condivisa anche dal sindacato, è quella di non permettere gare di appalto al massimo ribasso: o meglio, fare in modo che il ribasso non sia tale da dover andare sotto il contratto nazionale. Ieri la segretaria della Cgil Susanna Camusso lo ha detto dal palco: «Il lavoro deve essere dignitoso, non può scendere sotto un certo livello. Altrimenti non è lavoro. E a chi ci dice che siamo conservatori, rispondiamo che sì, siamo per conservare: le garanzie e i diritti delle persone».

Cgil: «Più tutele nelle gare»

Chiaro il riferimento a Matteo Renzi, che ha sempre attaccato il sindacato, tanto più oggi quando lo scontro si è acuito con lo sciopero Rai. «La legge sugli appalti si può e si deve cambiare», ha aggiunto Camusso. Si riferisce alla richiesta di intervenire sull’articolo 2112 del codice civile che regolamenta la garanzia dell’occupazione nel passaggio da un’impresa uscente alla nuova appaltante: Slc, Fistel e Uilcom chiedono una modifica perché si possa applicare anche ai call center.

Il casus belli – anche politico – è scoppiato con il call center 020202 del Comune di Milano. «Base d’asta 45 centesimi al minuto, che per i 40 medi parlati fanno 18 euro l’ora. Quindi non ci paghi nemmeno i dipendenti», protesta Umberto Costamagna, presidente di Assocontact Confindustria. Che infatti ha chiesto alle imprese aderenti (tra cui la sua, la Call&Call) di non partecipare, e ha fatto ricorso all’Autorità di vigilanza per i contratti pubblici. La stessa Almaviva di Marco Tripi – il maggior gruppo italiano, 14 mila dipendenti nel nostro Paese e 18.500 all’estero – che aveva gestito l’appalto precedente con 200 addetti, ha deciso di non ripresentare un’offerta.

Su questo fronte, quello degli appalti, dice la sua il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), che quando era ministro del Lavoro, nel 2007, avviò una campagna di stabilizzazioni: «La legge per non ribassare sul lavoro c’è già, l’avevamo varata con Prodi. È che non viene applicata: dispone che si scorpori il costo dei contratti nazionali e della sicurezza, e che su quello non si possa ribassare».

La Commissione Lavoro ha aperto una indagine parlamentare sui call center, mentre un tavolo con imprese e sindacati – che tornerà a riunirsi entro fine giugno – è stato istituito al ministero dello Sviluppo. Il sottosegretario Claudio De Vincenti ha detto ieri che «lo sciopero è uno stimolo per dare risposte al settore». E annuncia che si lavorerà su «contrasto alle delocalizzazioni, rivisitazione legislativa dei cambi d’appalto così da tutelare i diritti dei lavoratori, concorrenza fiscale tra regioni».

«Noi speriamo si intervenga presto – dice Michele Azzola, segretario Slc Cgil – Gli 80 mila lavoratori del settore aspettano risposte, molti sono in solidarietà o in cassa. E centinaia hanno già perso il posto». Infine, il sindacato chiede di applicare in modo stringente la normativa Ue sulla privacy: i dati sensibili, come le carte di credito dei clienti, vanno affidati solo a imprese dentro i confini Ue, o comunque iper-controllate.