È stato un Trump ringhioso, di scuola Tony Soprano, quello che ha dato vita ad una conferenza stampa movimentata anche per i suoi standard, nella East Room della Casa bianca l’indomani del midterm. «Siediti hai parlato abbastanza!» è stata al frase più ricorrente del briefing-rissa, il principale messaggio di Trump ai giornalisti «nemici del popolo», come ha ribadito dopo la prevista dichiarazione di vittoria. Una conferenza insomma che è somigliata a tratti ad un incontro di wrestling sceneggiato dagli amici di Trump al Wwe ed ha fornito un anticipo del secondo capitolo del trumpismo che inizia oggi e che promette di somigliare assai al primo. Nel florilegio di «zitto tu!», «vergognati!», «facciamo che io faccio il presidente e tu scrivi per Cnn», l’America ha avuto un assaggio dei due anni contenziosi che si preparano per il paese ora che i democratici controllano la Camera. E a questo proposito Trump è giunto a minacciare di paralizzare il governo se i democratici osassero aprire inchieste sul suo conto (fatto certo): «siamo capaci tutti a fare quel giochetto lì – anzi io sono molto più  bravo», ha sbottato.

LA PARALISI CHE SI PREPARA sarà in parte  dovuta allo stile personale, da palazzinaro di Queens, dell’inquilino della casa Bianca ma pìu fondamentalmente dovuta alla strategia scelta di attivare a proprio sostegno le parti e gli istinti più retrogradi del paese decisione che spacca la nazione. Il calcolo fondamentale del trumpismo, riconfermato in queste elezioni è stato di esasperare lo scontro cercando consensi nei serbatoi nascosti di ignoranza, risentimento e razzismo. Una scorta abbondante «militarizzata» dalla retorica di Trump nella scorsa campagna a costo anche di numerose vite umane. Sarà questa, ha lasciato intendere il presidente se ce ne fosse stato bisogno, la strategia anche per le prossime elezioni.

Il midterm non poteva insomma inquadrare in modo più cristallino lo scontro in atto fra forze suprematiste e vocazione multiculturale in America, a scapito di disuguaglianza, globalizzazione, clima, tecnologia – i veri temi sui quali il paese, come il mondo, si gioca oggi il futuro. E alle urne quasi la metà del paese ha riconfermato il proprio appoggio al paladino oscurantista. «Quasi» è una parola chiave dato che anche questo referendum è stato perso da un presidente il cui partito ha ricevuto ancora una volta la minoranza  del voto popolare complessivo.

Effetto del «gerrymandering» l’uso strumentale del sistema maggioritario uninominale  per inibire la volontà popolare vanificando le maggioranze progressiste nelle città e sulle coste.

LA CALIFORNIA È EMBLEMATICA dell’impotenza delle roccaforti blu di influire sulla governance nazionale. I 40 milioni di Californiani sono infatti rappresentati dallo stesso numero di senatori (2) degli abitanti del Wyoming. Vuol dire che il mezzo milione e rotti di abitanti di quello stato, compattamente repubblicani, eleggono lo stesso numero di senatori – due – della popolazione della California, quasi ottanta volte superiore. Ne consegue che un voto in Wyoming pesa quattro volte un voto in California. E la stessa dinamica penalizza tutti i grandi centri più popolosi a maggioranza liberal.

Ieri la Calfiornia ha eletto Gavin Newsom, fra gli astri nascenti dell’ala liberal democratica a successore del governatore Jerry Brown. La «California Republic», con la sua quinta economia mondiale ed il suo peso culturale e digitale, è dunque destinata a rimanere principale contraltare all’America di Trump, grazie al suo dinamismo, al suo voto giovanile e multietnico. Assistito da Xavier Becerra, attorney general, ispanico come il principale gruppo etnico dello stato, Newsom da Sacramento darà battaglia a Washington su molti capisaldi: ambiente, immigrazione, educazione sanità pubblica.

NON POTRÀ INVECE immediatamente influire sul problema fondamentale della rappresentanza: il fatto che si profila ad esempio nel prossimo futuro un Senato in  cui il 60% della popolazione americana concentrata nelle città, sarà  rappresentata dal 20% dei senatori. Un’America in cui un partito minoritario rimane avvinghiato al potere con ogni mezzo a disposizione – compresa l’intimidazione delle minoranze e l’inibizione del voto. Entrambi meccanismi ben evidenti in stati come la Georgia o il Texas, dove Beto O’Rourke è giunto straordinariamente vicino a ribaltare una tradizionale roccaforte reazionaria (O’Rourke è uscito sconfitto ma in potenziale pole position per una campagna presidenziale fra due anni).

SE C’È STATA UNA LEZIONE chiara ieri è che la sconfitta del trumpismo e delle tossiche forze che ha sprigionato non potrà avvenire in una sola elezione, o due. Il lavoro necessario sarà lungo e difficile e dovrà  necessariamente passare per una riforma cruciale delle leggi elettorali – come quella avvenuta inaspettatamente con il referendum in Florida che ha abrogato il divieto di voto per gli ex carcerati. Nel 2020 avranno diritto al voto – per la prima volta in 80 anni – 1,4 milioni di cittadini in forte prevalenza afro americani che potrebbero, questa volta si, consegnare ai democratici uno stato simbolo dell’ingiustizia elettorale.