«A chi mi ha insegnato a sognare, prima di tutto» è l’esergo di Gabriele Basilico nella seconda edizione di Bord de mer, 1992. Un piccolo volume dato come definitivo nel colophon ma che nel tempo avrebbe invece trovato altre vie, altre formulazioni e altre due edizioni, compresa quest’ultima appena pubblicata da Contrasto (Bord de mer, 226 fotografie in b/n, pp. 163, euro 45,00), fortemente voluta da Basilico dal 2012.

La prima era uscita nella primavera del 1990, coordinata da Walter Niedermayr (futuro autore di molte immagini e libri sulle complessità della visione fotografica quale si è manifestata nel paesaggio montano contemporaneo) e da sua moglie, la gallerista Christina Busin; era l’edizione in forma di catalogo della prima mostra italiana del lavoro che Basilico aveva portato a termine nell’85 dopo sei mesi di immersione nell’esperienza totalizzante della rappresentazione delle coste normanne. Se il lavoro, commissionato dal governo francese, era già uscito come parte di un ben più numeroso corpus di immagini di molti autori, Bord de mer sarebbe invece diventato un libro-manifesto dell’estetica di Basilico. Per questa ragione i cambiamenti delle edizioni successive vanno visti come una ricerca necessaria.

Nel 2003 Basilico scriveva sulla vitalità dell’archivio come work in progress: «un luogo della memoria e della storia con il quale ci si consulta e si può dialogare». Occorre partire da queste considerazioni per capire le modifiche delle sequenze e dei testi che si sarebbero succeduti nel tempo. Intanto eccone una, piccola ma significativa: il breve esergo del ’92 – una dichiarazione criptica sul sogno, che Basilico aveva collocato sulla stessa linea grafica del titolo ‘Per una lentezza dello sguardo’ – scompare, trasmigrando forse nelle riflessioni sulla meditazione fotografica che sono via via diventate più ‘elaborate’. Lo sguardo lento era connesso con il sognare, ne era una conseguenza o al contrario indagava il tempo dilatato della visione liberando il sogno. Non sappiamo dove e come inizi, ma sappiamo che un’intensa attività d’immaginazione e di riflessione interiore ha avuto un’ importante parte di consapevolezza nell’estetica di Basilico, e questa frase ce lo conferma.

Anni dopo, nel 2012, affermava: «la lentezza dello sguardo (…) è una definizione pseudo-poetica che ho utilizzato riflettendo a posteriori sul mio modo di lavorare (…) Contemplare ha il significato di ‘metabolizzare’ il paesaggio , di farlo diventare qualcosa che vive dentro di te…». Frase lontana dalla razionalità compositiva dell’architetto che fotografava le fabbriche delle periferie milanesi, ‘rivelato’ dalla mostra del PAC nel 1983: un Basilico già sensuale nella ricerca di una architettura che sembrava respirare a fatica, immobile sotto il sole, come se l’erosione del sistema industriale avvenisse attravero le sue intercapedini, come se quel respiro andasse evaporando sotto l’azione dei raggi solari, in un momento storico in cui la fabbrica da luogo di produzione andava spegnendosi nella propria museificazione. Cambiava la vita delle nostre città, e noi con loro: Basilico lo aveva percepito attraverso la fotografia, e Roberta Valtorta ci avrebbe consegnato pagine illuminanti su questo aspetto. Quella mostra dichiarava che non solo le fabbriche ma noi stessi eravamo sulla soglia di un cambiamento epocale, tra la vita collettiva rumorosa e ribollente e un futuro rappreso sugli schermi: uno choc. Propriamente quello che Benjamin individuava essere la percezione vitale dello sguardo moderno, uno stare sul crinale in un continuo movimento percettivo.

Qualche anno dopo Basilico lascia emergere del tutto quella visione meditativa già presente nella scelta della luce dei primi lavori. Ora cerca di coniugare lo sguardo sulla realtà in quel punto centrale che coincide con la messa a punto delle ottiche e con la poetica dei luoghi e della luce. «Ho imparato a sognare», dunque, sembra essere un’esperienza da tenere in conto per capire qualcosa del suo lavoro. In vari modi e in tempi diversi egli dichiarerà di aver imparato nello sguardo lento a rinunciare al narcisimo, per dirigersi verso una riproduzione più oggettiva che tenda all’azzeramento di ogni autorialità dello sguardo, pur nel rispetto soggettivo degli oggetti della visione. Una tensione continua alla ricerca dell’equilibrio.

La scoperta dello ‘sguardo lento’ lo porta a riflessioni estetiche di rara intelligenza nel costruire ponti tra percezione e soggetto della visione: «l’uso lento e riflessivo della camera 10×12 (…) ha semplificato l’osservatorio sul mondo dilatando le mie capacità percettive: uno sguardo «lontano» e a un tempo «rallentato» mi avevano consentito di scoprire le cose osservate quasi al di là delle loro apparenze (…) Le grandi visioni d’insieme, i punti di fuga che avvicinano l’orizzonte, il gioco dialettico dei vari piani e l’armonia che unisce le diverse parti erano diventati per me nuovo terreno di conquista. L’osservazione insistente e il ritorno in alcuni luoghi (…) avevano generato un rapporto di confidenza come se le città, i cieli, i paesaggi guardati con il giusto approccio avessero potuto restituire e irraggiare una loro armonia che aveva come riscontro un mio armonico ‘benessere’ di comprensione». Oggi lo si definirebbe un atteggiamento empatico, l’emersione di un’estetica a tutto tondo: trovare un equilibrio tra sentimento e pensiero, e l’equilibrio nasce quando si verifica il ‘raffreddamento della temperatura emozionale’.

Non sembra quindi un caso che l’ultima edizione di Bord de mer si presenti come una narrazione on the road. Le immagini – più del doppio rispetto al primo volume – sono raccordate da strade che scendono verso il mare, salgono verso le colline, girano intorno alle case, formano una linea di base per filari di costruzioni allineate davanti alla spiaggia, sostano davanti a leggere volute di vapori che si alzano dall’acqua, finiscono nel nulla di un filo teso che inquadra la distesa marina; poi tornano verso le case, si separano ancora per aprire a brevi visioni aperte, si tuffano in lontananza verso un orizzonte acqueo scuro e minaccioso. Come un regista o un documentarista, Basilico ci guida, al volante di una macchina immaginaria verso il fulcro del suo sguardo: i porti. Questi giganteschi mostri di ferro che si chinano su distese di sabbia e di mare sono i guardiani della magia di luoghi di affezione. Una breve sequenza di immagini parla di navi enormi che occupano sia lo spazio acqueo sia quello fotografico per riportarci ai monoliti superbi delle architetture marinare. Un mare schiumoso e infinito chiude il libro.

In quarta di copertina la fotografia di una casa con l’insegna A la tentation. A Basilico piaceva raccontare di quanto fosse contento quando l’aveva vista. Non gli pareva vero. Lì con il mare sullo sfondo e nell’obbligo di girare per seguire la strada. Una manna, per lui che individuava nelle contraddizioni architettoniche e spaziali elementi di sfida. E quelle parole, un regalo del caso. Il giorno successivo, quando tornò sul posto pronto per la ripresa fotografica, un signore su una scala la stava staccando. «Alt! Questo no, non può. Aspetti un momento che devo scattare». E così A la tentation, che stava per finire i suoi giorni chissà dove, divenne invece un emblema senza tempo.