Dopo lo sbarco in politica nel 2012 sotto le insegne di Italia Futura di Luca Di Montezemolo, Carlo Calenda ha fatto praticamente di tutto: il ministro e il viceministro dello Sviluppo, l’ambasciatore a Bruxelles, l’europarlamentare del Pd (ancora in carica), l’aspirante segretario del Pd, il papabile premier per varie formule di governo, il suggeritore di un fronte repubblicano da Macron a Tsipras e poi di un secondo fronte repubblicano (più ristretto) dal Pd a Forza Italia.

E ancora: il fondatore di un partitino (Azione), la riserva della Repubblica, l’influencer scatenato su twitter (dove scrive una media di 7-8 post al giorno e risponde come un mastino ad ogni critica), il liberista pentito, l’ideatore di una formula politica personale secondo cui lui sostiene candidati e alleanze «se sono bravi». La patente di virtù naturalmente la concede lui, perché nelle sue tante vite prima da manager, poi da dirigente di Confindustria e da politico ha conosciuto praticamente tutti e ciò gli consente di giudicare chi è capace, partendo da un radicato complesso di superiorità.

Risalendo agli anni Ottanta ha fatto anche il giovane comunista nella Fgci di Prati, con genitori sessantottini, e poi il manager anticomunista che ironizza sul figlio adolescente che «legge moltissimo, solo che le letture lo hanno fatto diventare comunista».

L’ASPIRANTE SINDACO DI ROMA, che stasera dovrebbe sciogliere la riserva in diretta tv da Fabio Fazio (ma ha già registrato il dominio internet www.calendasindaco.it) appare come uno Zelig capace di interpretare tante (forse troppe) parti in commedia. Sarà perché è l’erede di una dinastia di cineasti (il nonno Luigi Comencini che lo fece recitare in Cuore da bambino e la mamma Cristina), Calenda si trova a suo agio nei ruoli più diversi: il pupillo di Montezemolo alla Ferrari che si fa operaista, chiama «gentaglia» i padroni dell’Embraco e spiega: «Abbiamo sostenuto per anni che bisogna difendere il lavoro e non il posto di lavoro, ma così un operaio del tornio prende il fucile e spara. È quello che è successo nelle urne nel 2018».

Nella sua vita multiforme due sono i punti chiave: le relazioni, tante, tantissime, che gli consentono di cambiare sponsor senza mai cadere per terra, da Montezemolo (il suo vero mentore grazie all’amicizia col padre di Calenda, il giornalista Fabio) a Monti, Renzi (che lo ha definito «più rissoso di me») e Gentiloni. E l’ambizione smodata di un ragazzo che andava male al liceo e poi si è messo a studiare tanto, e così faceva ancora ieri twittando il suo «studio matto e disperatissimo» sui dossier della Capitale.

Negli ultimi mesi ha capito che – almeno a breve- non potrà ambire a palazzo Chigi e neppure alla guida del Pd, e che col suo partitino al massimo potrebbe strappare qualche seggio sicuro ai dem alle prossime politiche. Robetta.

DI QUI IL RITORNO ad una antica passione per il figlio della buona borghesia romana («non Parioli ma quartiere africano», ci tiene a precisare): il Campidoglio. Il Pd non si fida di lui, lo considera nel migliore dei casi una «mina vagante»: l’ha fatto eleggere a Bruxelles a maggio 2019 e lui in agosto se n’è andato. In due anni dal suo ingresso con tutti gli onori al Nazareno (marzo 2018) sul Pd ha detto di tutto, che era da sciogliere, «riformisti rammolliti».

Dopo che Zingaretti ha fatto nascere il governo col M5S è stato un crescendo, un anno di fendenti. E pensare che il Pd per lui ha fatto di tutto: lo ha preso nel 2013 trombato alle elezioni con Scelta civica di Monti e lo ha fatto viceministro con Enrico Letta, poi ministro con Renzi e Gentiloni, ambasciatore, europarlamentare.

Anche con Renzi il rapporto non è del tutto risolto. Lui lo definisce «uno dei migliori presidenti del Consiglio che abbiamo avuto», ma gli ha detto che «voleva fare Macron e invece si è ridotto a Mastella». A giorni alterni si odiano o sognano di fare un partitino liberale insieme, in Puglia si sono stretti a coorte per far fuori Emiliano (da lui definito un «politico sega») e hanno preso insieme l’1,6%.

A DIFFERENZA DEL SENATORE di Rignano, a sprazzi Calenda si mostra più riflessivo sui propri errori: «Per 30 anni ho scritto e sostenuto le cazzate del liberismo», ha detto un anno fa. Anni prima aveva fatto mea culpa sul flop di Scelta civica: «Ho molte responsabilità, a partire dalla retorica sulla superiorità della società che per anni ho coltivato».

Ma torniamo a Roma. E’ dal 2017 che Calenda, tra i mille altri, coltiva anche questo progetto: già allora- da ministro- sparò su twitter 50 slide di progetti per la Capitale, con tanto di costi, dettagli, nuovi autobus e Student Hotel. Su Virginia Raggi si è espresso con la consueta brutalità, un aspetto del carattere che gli ha procurato il nomignolo di «bullo di buona famiglia», ma che ha alimentato la sua popolarità: «Ho provato a darle una mano, è una delle persone più ottuse e arroganti mai incontrate, senza uno staff e col terrore di fare qualsiasi cosa».

CON QUESTE PREMESSE la campagna elettorale si annuncia spumeggiante. Nel Pd hanno le mani nei capelli, «come si fa lavorare con uno che cambia idea ogni tre ore?». Per ora il pendolo si orienta verso una sua corsa dentro il centrosinistra. Realisticamente, l’unica opzione che potrebbe davvero portarlo a guidare Roma. Anche se al ballottaggio rischia di non prendere i voti dei grillini, che lui chiama abitualmente «scappati di casa». Molto dipenderà da quale maschera indosserà l’istrionico Zelig-Calenda nello sceneggiato sul Campidoglio che andrà in onda da qui a primavera.