Non è uno sfogo personale il durissimo attacco contro il Pd, in realtà contro il suo segretario, del ministro dello Sviluppo economico. Carlo Calenda dà voce a umori, anzi a malumori, che nel governo sono condivisi da tutti. «Come fa un manager a gestire un’azienda se l’azionista di riferimento non gli dice quando scade? Il Pd dovrebbe sedersi con il governo e definire agenda e orizzonte temporale».

Il governo, insomma, non ne può più di dover lavorare col fiato di Renzi sul collo, nella situazione di incertezza permanente determinata dalle manovre del segretario per andare al voto il prima possibile e allo stesso tempo dovendo garantire a Bruxelles di essere invece un esecutivo solido, nel pieno dei propri poteri, in grado di portare avanti sia le misure che le riforme reclamate dalla Commissione europea. «Le elezioni – conclude Calenda – secondo me dovrebbero essere fissate al termine della legislatura in base a considerazioni di buon senso».

Non è un caso che a incaricarsi di una replica così dura alle manovre di Matteo Renzi sia stato Calenda, cioè un ministro che non figura tra i vertici del Pd e che può quindi permettersi di parlare fuori dai denti senza provocare scossoni troppo forti nel partito. Ma l’esasperazione palesata dal ministro dello Sviluppo è comune a tutti.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso, su questo fronte, è stata l’insistenza dei renziani per fissare le primarie il 9 aprile. Certo, il segretario aveva assicurato in privato a Dario Franceschini che anche se fosse riuscito a strappare quella data non ne avrebbe poi approfittato per correre al voto. Anche a volersi fidare di Renzi però, e non sono molti quelli pronti a farlo, le primarie concluse in tempo per sciogliere le camere e votare l’11 giugno avrebbero permesso al segretario di tenere sempre altissima la tensione, secondo una strategia precisa tesa a impedire ogni “normalizzazione” che, nelle paure di Renzi, potrebbe precipitarlo nel cono d’ombra.

La decisione di fissare le primarie per il 30 aprile, data che come segnala Piero Fassino cancella la possibilità di votare entro giugno, dovrebbe chiudere una volta per tutte la faccenda. Non è del tutto vero, però, perché i renziani di strettissima osservanza fanno notare che non esiste una norma che vieti di sciogliere le Camere prima delle primarie del Pd, e quindi se si producesse un incidente politico, cioè se il governo andasse sotto in un voto di fiducia, la porta per le elezioni in giugno resterebbe comunque aperta. Dunque non è escluso qualche colpo di coda quando in aula arriveranno provvedimenti non condivisi dall’intera maggioranza, come quello sulla cittadinanza o, se verrà tentato, quello sulla modifica dei voucher per evitare il referendum promosso dalla Cgil.

Ma c’è un secondo fronte, oltre la «scadenza» del governo, persino più delicato e anche in questo caso il ministro Calenda non la manda a dire: «Il Pd dica come dobbiamo strutturare il prossimo Def. Se dice no a tasse, privatizzazioni, tagli e procedura d’infrazione qualcuno ci dica come queste cose stanno insieme».

Ancor più dei giochi sulla data è l’opposizione sorda a una manovra obbligata, anche se il governo farà il possibile per inserirla nel Def in modo da evitare «manovre aggiuntive», a far infuriare i ministri del governo Gentiloni. Affrontare una trattativa già difficile come quella europea dei prossimi mesi con il leader del primo partito di maggioranza che ostacola invece di aiutare è infatti una missione disperata.
La data delle primarie autorizza spiragli d’ottimismo: «Ora che non può più sperare nel voto a giugno anche Renzi avrà tutto l’interesse nel sostenere il governo». In teoria è così, ma con Matteo Renzi non c’è da giurarci.