Far passare Carlo Calenda per un uomo di sinistra è un’operazione assai complicata. Non lo è per biografia, non lo è per formazione, non lo è per pensiero. Nelle ultime settimane però lo sforzo è stato portato avanti da molti media: il ministro dello sviluppo economico è diventato improvvisamente il paladino dei diritti degli operai Ilva, Alcoa e Embraco. Proprio a Riva di Chieri con sapiente tempistica ieri ha iniziato la sua personale scalata al Partito democratico post Renzi. «Calenda in pratica si è autoinvitato all’assemblea dei lavoratori», racconta Ugo Bolognesi della Fiom di Torino. Lo ha fatto con il suo strumento preferito: Twitter. Usato però in modo completamente nuovo: Calenda da qualche mese si è messo a rispondere direttamente agli utenti. E così ha fatto con l’unico operaio che lo ha invitato all’assemblea. Peccato che usi questo sistema in modo propagandistico e non risponda mai quando si entra nel merito delle questioni.

I 497 operai della Embraco lo hanno accolto bene senza esimersi però dall’affibbiargli l’epiteto più utilizzato da chiunque abbia avuto a che fare con Calenda in questi mesi: «Un gran paraculo».
Il giudizio viene da lontano. Fin dai tempi in cui frequentava il liceo Mamiani – uno di quelli della Roma bene – Calenda aveva fama di sbruffone. Le cose della vita ne hanno accelerato la formazione: diventato padre a 16 anni ha cambiato mille mestieri e posizioni. Se il primo impiego può essere considerato il ruolo da Enrico Bottini interpretato nella trasposizione televisiva del Cuore di De Amicis diretto dal nonno Luigi Comencini – la stoffa da attore gli è rimasta, prova ne sia quel «gentaglia» rivolto ai consulenti di Embraco proferito il 19 febbraio a favore di telecamera – Calenda ha poi sempre avuto mentori di peso. Il primo fu Luca Cordero di Montezemolo che lo portò alla Ferrari poi in Confindustria (pochi operai lo sanno) e infine a Ntv. L’ultima esperienza professionale, prima dello sbarco in politica, non è però fortunata: Calenda è direttore generale dell’Interporto campano di Nola, creatura di Gianni Punzo, sodale anche di Montezemolo in Italo, che però ha rischiato il fallimento.
Il passaggio in politica avviene prima con la fondazione Italia Futura in cui incrocia Andrea Romano. Il duo si trasferisce nell’avventura di Mario Monti: entrambi cinque anni fa furono candidati in Scelta Civica. Ma Romano viene eletto, Calenda no. Il paracadute per la sconfitta è comunque un posto da viceministro nel governo Letta allo sviluppo economico. Ministero che ritroverà – ma da ministro – dopo la parentesi da rappresentante del governo a Bruxelles.

Due paradossi grandi come una casa dominano il rapporto con Matteo Renzi. Il primo riguarda la sua nomina a ministro dello sviluppo. Dimessasi Federica Guidi per lo scandalo «Tempa Rossa», per quel posto il segretario del Pd voleva a tutti costi il renzianissimo ex ambientalista Chicco Testa, uno che dall’Enel in poi ha fatto solo disastri. Il secondo è che in questi mesi è proprio Calenda ad essere considerato il Macron italiano: se lui punta al Pd, Renzi è delegittimato a farsi un partito da solo.
Nominato ministro dello sviluppo nel maggio del 2016, Calenda nei primi mesi non si distingue dai predecessori. Appoggia tutti i provvedimenti di Renzi e non fiata davanti a delocalizzazioni perfino peggiori di quella di Embraco.

Si tratta della K Flex, multinazionale brianzola leader in isolanti termici e acustici, che a maggio ha chiuso la fabbrica di Roncello e messo alla porta 187 lavoratori per spostare la produzione in Polonia. E della General Electric che col marchio Alstom Power Italia ha licenziato 140 lavoratori a Sesto San Giovanni. Quando hanno visto Calenda battersi come un leone per Embraco tutti questi licenziati non hanno potuto che pensare: «Peccato che le nostre fabbriche non siano state chiuse in campagna elettorale». In realtà Calenda non era candidato, ma ha scritto il programma economico della lista Più Europa insieme all’ormai sodale Marco Bentivogli, segretario della Fim Cisl. Quando le chances da «riserva della repubblica» per un governo tecnico con i berlusconiani sono svanite, ecco che Carlo Calenda scende in campo.

Considerate tutti questi elementi dunque, l’adesione al Pd di Carlo Calenda diventa il simbolo della deriva destrorsa del partito nato dieci anni fa come perno del riformismo del centrosinistra italiano. Una deriva che sembra senza fine.