I mondiali di calcio femminile disputatisi in Francia nel 2019 hanno suscitato un interesse particolare negli italiani, a causa anche della mancata qualificazione della nazionale italiana maschile ai mondiali del 2018 in Russia. Un interesse tale da spingere la Rai e Sky a trasmettere le partite in chiaro. All’esordio delle azzurre, nonostante l’orario insolito delle 13, i telespettatori che seguirono la partita furono 3 milioni e mezzo. Il match a eliminazione diretta contro la Cina e l’Olanda fece registrare 7 milioni e mezzo di telespettatori.

Mai il calcio rosa era stato così centrale nel nostro Paese: eppure, nel silenzio totale dei media l’11 marzo la nazionale femminile avrebbe dovuto gareggiare per la finale contro la Germania all’Algarve Cup, un torneo a invito che si disputa ogni anno in Portogallo: vi prendono parte le migliori squadre del mondo, e l’Italia si è guadagnato l’accesso alla finale dopo aver vinto 1 a 0 contro la nazionale lusitana e 3 a 0 contro la fortissima Nuova Zelanda (finale alla quale le azzurre hanno dovuto rinunciare rientrando in Italia in anticipo, prima della chiusura dei voli, a causa del coronavirus).

I telecronisti, tutti maschi, sia all’Algarve Cup che ai mondiali in Francia, si sono trovati per la prima volta ad adattare il linguaggio calcistico alle partite che avevano come protagoniste, in campo, le donne. Durante le telecronache sono emerse contraddizioni, presupposti, valorizzazioni più o meno nascoste, che giunte alla coscienza dei telespettatori hanno urtato la loro suscettibilità. Ad irritarsi per certe espressioni sono stati in particolare Felice Accame, docente di Teoria della comunicazione presso il Settore tecnico della Figc a Coverciano che, insieme a Paolo Serena dell’ufficio stampa della Figc e a Francesco Ranci docente di Scienze sociali presso il Barkley College di Manhattan hanno scritto un libro Le illusioni del progresso linguistico L’esempio del Campionato del mondo di calcio femminile del 2019 (Biblion edizioni, pp. 105, euro 10), nelle cui pagine hanno raccolto una serie di espressioni emerse dalle telecronache, che pongono la necessità di un chiarimento di fondo, il quale non può venire che dall’analisi dei rapporti tra linguaggio e cultura.

«Le istituzioni che contano sono marchiate da una cultura maschile – afferma il professor Felice Accame – perché i poteri dalla divisione del lavoro in avanti, dall’uomo cacciatore, guerriero e difensore della famiglia alla donna che si occupa della prole, sono frutto di una cultura maschile. Vogliamo che il linguaggio non sia un’istituzione maschile? Sul linguaggio dobbiamo vigilare, però alcune distinzioni bisogna saperle fare; per esempio difensore non lo considero più un termine maschile, ma designante una funzione, il portiere designa una funzione, senza accusare qualcuno di maschilismo se lo si usa nei confronti di una donna». Il telecronista non può chiamare «portiera» una donna in campo che difende la porta, perché la portiera è quella dell’automobile. Quando il telecronista dice ’abbiamo un altro difensore ammonita’ contraddice le regole della sintassi».

Il problema del linguaggio appropriato durante le partite di calcio femminile si è posto anche in Francia. Nella lingua francese l’allenatore è indicato con il termine entraineur, mentre seri dubbi sono sorti sul termine da usare per l’allenatrice che risponde a entraineuse, già usato per indicare la ragazza che nei night club ha il compito di intrattenere i clienti. Un doppio senso che Oltralpe ha creato non poco imbarazzo.

E qui da noi come si risolve il problema del termine per indicare la donna che allena la squadra? Le opinioni sono diverse e contraddittorie: «Qualcuno ha proposto che l’allenatore delle squadre femminili sia chiamata miss, tra costoro figura anche la mia amica Milena Bertolini, l’allenatrice della nazionale di calcio femminile – prosegue Felice Accame – ma sbaglia di gran lunga, perché il termine miss è già occupato e ha un altro significato. Le ragazze delle squadre di calcio femminili chiamano coach l’allenatrice, in questo modo superano il problema mister o miss, ma cadono dalla padella alla brace, si sottopongono all’imperio linguistico americano-anglosassone. Nel nostro Paese sempre più si utilizzano le parole in maniera ambigua e si contraddicono le regole della grammatica. Preferisco i neologismi».

Il lessico calcistico si è costituito attraverso varie fasi, e risulta conseguentemente adeguato al modello maschile del gioco del calcio. I nomi dei ruoli dal portiere all’arbitro, insieme alle metafore che accompagnano il racconto del calcio, come «cannoniere», «squadra maschio» e «squadra femmina» che rientrano nel modello Gianni Brera, e nel linguaggio di campo che si usa tra i calciatori perfino «uomo» quando si passa il pallone a un compagno di squadra e lo si avvisa che sta arrivando alle sue spalle un avversario, affondano le radici in questo patrimonio storico e socialmente diffuso.
La soluzione migliore sarebbe quella di avere la consapevolezza del linguaggio propedeutico alla relazione umana. La critica del linguaggio è il passo fondamentale per una democrazia e le relazioni umane possiamo tenerle solo sulla base della critica del linguaggio.

Nel momento in cui usiamo una parola, soltanto chi sta parlando sa se sta compiendo delle operazioni oppure no, questo naturalmente non deve offrire alibi a nessuno. Alla nascita ereditiamo un patrimonio linguistico di cui non abbiamo responsabilità diretta, frutto di una selezione darwiniana fondamentale, per cui alcune cose ricevono un nome, perché hanno una funzione economica nella società e altre no. Tutte le parole che usiamo sono il risultato di un processo selettivo.

Ma sarà possibile una diffusione del linguaggio politicamente corretto e in particolare un «riassetto» in profondità della cultura dei protagonisti? E, soprattutto, sarà la Federcalcio a mettere in atto questo processo?
La risposta è netta: «La Federcalcio non ha riconosciuto il calcio femminile fino al 1986. Come si può pensare che abbia elaborato un linguaggio specifico?».