Un tiro dal dischetto che si infila nell’angolo basso della porta del calcio maschile e va in rete. In tempi in cui si palude al calcio femminile che riempie gli stadi, come in occasione di Atletico Madrid -Barcellona disputatasi a metà marzo con circa sessantunomila spettatori paganti e più recentemente Juventus-Fiorentina, sfida d’alta classifica del campionato di calcio femminile disputatasi il 24 marzo, che ha visto sugli spalti dell’Allianz di Torino 39 mila spettatori, entrati allo stadio gratis, un libro di Carolina Morace, La prima punta(people, euro 14) mette in discussione l’abbondante retorica che si è riversata sulla carta stampata riguardo al calcio femminile italiano, soprattutto in vista dei campionati mondiali che si svolgeranno in Francia dal 7 giugno al 7 luglio di quest’anno.
L’autrice è stata calciatrice di lungo corso nella serie A femminile e in nazionale, che ha guidato anche da allenatrice, inoltre vanta esperienze nel calcio europeo e canadese, soprattutto è stata la prima donna al mondo ad allenare una squadra di professionisti di calcio maschile, quando Luciano Gaucci, patron del Perugia di serie A, anni fa le affidò la guida della Viterbese che militava in serie C1. Alla guida della nazionale femminile dal 2000 al 2005, Carolina Morace conquistò un onorevole quarto posto all’Algarve Cup, prestigioso torneo di calcio femminile che si dusputa ogni anno in Portogallo, dopo aver battuto Cina e Finlandia, un momento di svolta per il calcio femminile:” Mi rivolsi a Giancarlo Abete che ai tempi ricopriva il ruolo del vicepresidente della Figc, chiedendogli un particolare impegno per aumentare il numero delle amichevoli e perché la nazionale partecipasse all’edizione successiva dell’Algarve Cup. La risposta che ricevetti fu molto chiara: “ Se devo chiedere un piacere per la nostra Federazione, di sicuro non lo chiedo per la nazionale femminile”mi disse. In quel momento capii che, al di là delle promesse, la federazione non era per niente intenzionata a costruire un progetto che avesse solide basi e a investire su un gruppo che si era fatto valere”. Che i dirigenti della federcalcio ancora oggi non abbiano intenzione di investire sul calcio femminile è provato dal fatto che, secondo i dati forniti dalla Figc, l’Italia con lo 0,3% occupa il diciottesimo posto in Europa per tesserate under 18, la Svezia il 15%, l’Olanda il 6,7% e la Germania il 3%. Il movimento del calcio femminile è cresciuto notevolmente in Europa negli ultimi anni, passando dalle 240 mila calciatrici del 1985 a 1,3 milioni del 2017.

La Germania conta oltre 200 mila calciatrici perché investe dieci milioni all’anno nel calcio femminile, destina 800 mila euro a ogni squadra che partecipa al campionato di serie A, ha parificato perfino i premi partita con la nazionale maschile. Dieci milioni anche la Francia che conta 118 mila calciatrici tesserate alla federcalcio transalpina, in Inghilterra diventano 15 milioni annui per sostenere un movimento di 102 mila calciatrici, la Svezia conta 117 mila, la Norvegia 103 mila tesserate. E l’Italia? Conta appena venticinquemila calciatrici e i fondi sono 4 milioni, due dati che hanno un riflesso sul movimento calcistico femminile e sulle strutture: una bambina italiana, secondo un’indagine dell’Uefa, per giocare a calcio, rispetto al luogo di residenza, deve spostarsi dai venti ai quaranta chilometri, in Germania la distanza è dimezzata deve coprire al massimo dieci chilometri. In Inghilterra le donne sono professioniste, in Francia vi è un sistema misto, mentre in Italia esiste persino un tetto di compenso annuale massimo per una calciatrice, quello di 23.800 euro all’anno perché sono dilettanti, infatti è vietato alle donne sportive essere professioniste, come sostiene Morace:” La legge stabilisce che le federazioni sportive italiane possono aprire al professionismo, ma a una condizione, e cioè che i professionisti siano sportivi: sportivi con la “i”, non sportive, le donne sono comunque escluse. Non importa se per preparare una gara una donna si allena cinque ore al giorno, sacrifica la propria vita professionale: rimane comunque una dilettante, senza avere le tutele lavorative di un uomo”. Tradotto in termini pratici, le donne sportive non godono di assistenza sanitaria, se si fanno male vanno in ospedale come cittadine, nessuno paga loro le spese sanitarie, i medicinali e le assenze lavorative dovute a infortunio o a gravidanza e neppure i contributi Inps. In Italia gli allenatori delle squadre maschili godono della pensione, ma se si tratta di un’allenatrice no.

La legge 91 del 1981, che prevede il professionismo nello sport solo per gli sportivi e non per le sportive è stata scritta dai maschi, gli stessi che oggi con la complicità dei giornalisti sportivi della carta stampata, che si abbandonano a ogni falsa retorica, plaudono al calcio femminile, ma nulla fanno per cambiare lo stato delle cose, cioè estendere alle donne sportive i diritti che loro si sono garantiti per iscritto.