In questo fine settimana la politica italiana è stata attraversata da metafore calcistiche d’ogni tipo («fare spogliatoio», «non concedere un rigore a Berlusconi», «concentrarsi sulla palla» eccetera). Si è citato pure Alex Ferguson. Ha detto Matteo Renzi, per fargli omaggio, che «si è rottamato da solo». Ma l’uso del verbo è davvero una scemenza. In realtà l’abbandono di Sir Alex Ferguson dopo 26 anni sulla panchina del Manchester United aiuterebbe a svelare le forme di un rapporto tra calcio e politica molto intenso e piuttosto sobrio, così poco cannibale, a differenza di quel che accade in genere a casa nostra.

Alastair Campbell, ex «spin doctor» di Tony Blair e amico personale di Ferguson, ha raccontato più volte gli incontri e le tante telefonate scambiate con il manager dei Reds, laburista fin da ragazzo, e i consigli ricevuti dall’allenatore fin della prima vittoriosa campagna elettorale di Blair del 1997. Uno di questi invitava a curarsi della propria salute fisica. «Non puoi fare un lavoro stressante se non sei fisicamente a posto», diceva Ferguson, che arrivò a suggerire un massaggiatore sul bus della campagna elettorale. «Forse ho esagerato», ammise anni dopo. E ripeteva: «Stiamo vincendo 2-0, lasciamo che siano loro a venire avanti, facciamoli sbagliare».

Un altro consiglio di quel periodo recitava: «Finché sarete capaci di far stare i membri chiave del partito nella stessa stanza allo stesso momento, andrà tutto bene». Che è precisamente una versione un poco più sofisticata del «fare spogliatoio», il potere del guardarsi in faccia. Detta da uno – aggiungiamo – che nel 2003, in uno spogliatoio dopo una sconfitta contro l’Arsenal tirò uno scarpino alla star della squadra David Beckham e lo costrinse a due punti sul sopracciglio. Leggendario presso i suoi calciatori soprattutto per il cosiddetto «trattamento asciugacapelli»: «Ti si pianta a due centimetri dalla faccia e comincia a urlare tanto forte che quando ha finito ti ritrovi con i capelli pettinati all’indietro». 

Un sergente di ferro, per usare un termine da allenatori. Ma neppure troppo. Di certo uno che non te le mandava a dire. Nel suo tabellino, per dire, ci sono 5 squalifiche per aver pesantemente insultato l’arbitro durante la partita. E un embargo totale nei confronti della Bbc che dura da sei anni, per via di un documentario sul figlio Jason, agente di calciatori, in un cui si insinuavano alcuni peccatucci di famiglia. Ma ventisei anni su una panchina sola sono tanti, anzi sono un record (e tutti a notare che ci mise sei anni a vincere il suo primo trofeo, mica come qui da noi che dopo mezza stagione così così arrivederci e grazie). Il fatto è che Ferguson poteva dirsi quasi completamente al sopra delle diavolerie del calcio moderno (soldi, agenti, televisione, primedonne) per il semplice motivo che prima che accadesse tutto questo lui era già lì. «Parte del mio lavoro è assicurarmi che questi ragazzi tengano i piedi per terra. – diceva in un’intervista al New Statesman – Non mi stanco di ripetere a loro che l’etica del lavoro li ha fatti entrare dalla porta principale e non devono mai perderla».

Socialista per tre motivi, diceva. Essere nato a Glasgow, figlio di un lavoratore del porto, di sinistra. Aver lavorato lui stesso da ragazzo al porto, e aver fatto il rappresentante sindacale. Per ultimo, aver assistito alla morte della madre nel 1986, ricoverata in un ospedale di Glasgow massacrato dai tagli alla sanità di era Thatcher. Sull’eventuale incompatibilità tra il socialismo e le considerevoli fortune accumulate in anni di calcio aggiungeva: «Sono sempre in contatto con i miei vecchi amici, e lo sarò sempre. Ho guadagnato un sacco di soldi, ma ho lavorato duro, pago le tasse, e ne restituisco parecchi in tanti modi». E ancora: «Penso che parte del successo di Blair è stato mostrare che il successo e il laburismo possono camminare assieme».

Socialista scozzese della schiatta che ha dato al calcio britannico alcuni dei più grandi allenatori: di sempre: Jock Stein, Matt Busby, Bill Shanky. Di Alex Ferguson non si ricorderanno particolari invenzioni tecniche. Ma la capacità di gestire l’eredità di una squadra come il Manchester United, per la quale oggi grazie alla tv via satellite si fa il tifo in tutto il modo, quella sì è straordinaria. La working class cui il calcio inglese forniva una (sacra) rappresentazione ogni sabato pomeriggio è scomparsa da tempo. In nome di quel fantasma di classe, Ferguson è stato capace di essere «all’antica» e postmoderno allo stesso tempo. Lo United ha sempre fatto il 4-4-2, il più inglese dei moduli, basato sulla fisicità e sull’attitudine offensiva. Ha sempre schierato fin dai tempi di George Best, il Genio all’ala destra. Con Ferguson i numeri 7 si chiamavano Eric Cantona, David Beckham, Cristiano Ronaldo. E così via. «Nei grandi club di calcio si incontrano grandi personaggi – spiegava l’allenatore – e il mio lavoro è quello di tirare fuori il meglio da loro, guardando sempre al futuro della squadra, perché nessuno può fare tutto da solo. Questo vale anche per la politica».

Ma Ferguson non ha mai pensato, e questa è la cosa più interessante, che il calcio potesse insegnare qualcosa alla politica. Nella sua autobiografia, pubblicata due anni fa, non si fa neppure cenno della sua attività di consulente per il Labour, di cui è stato pure un consistente finanziatore. Quel che è stato svelato appare per niente forzato (al contrario, molti hanno pensato che il tifo di Tony Blair per il Newcastle fosse pompato ad arte). Nè, giammai, ha creduto che la politica fosse come il calcio. Poteva appassionarsi alla politica, come a un libro su Abraham Lincoln o al lavoro di un direttore d’orchestra – lui che aveva lasciato prestissimo la scuola – mostrando semplicemente e correttamente che laddove ci sono in gioco relazioni tra le persone tutti possono imparare da tutti, restando ognuno al proprio posto.