Un male oscuro si annida nei gangli nervosi dei calciatori professionisti, è così cupo che preferiscono tenerlo nascosto. Non ne parlano con nessuno, per non essere messi alla berlina da un mondo, come quello del calcio, che della denigrazione e delegittimazione dell’avversario ha fatto il suo asse portante, e dei propri beniamini in campo l’esaltazione sconsiderata. I calciatori possono contrarre infortuni, ritrovarsi da un momento all’altro con una frattura della tibia o con la rottura dei legamenti crociati, ma non possono contrarre malattie nervose, che proprio l’ambiente calcistico determina. Nell’ultimo anno è successo al difensore dell’Inter Ranocchia, sul quale pende l’accusa di essere la causa di tutti i mali dei nerazzurri, una pressione forte attraverso i social, che il giocatore non ha retto, perciò da alcuni mesi si avvale di un sostegno psicologico. Anche al rossonero Montolivo, che nel corso di Italia-Spagna per le qualificazioni mondiali, a Torino si è rotto i legamenti con conseguente intervento chirurgico, una parte del pubblico presente sugli spalti, alimentando antiche rivalità dovute al tifo, gli augurava il peggior fine vita, inevitabili gli strascichi polemici dalla sala operatoria.

PSICOLOGIE FRAGILI

La denuncia sulle malattie mentali dei calciatori, fenomeno che travalica i confini italiani, arriva da un organismo rappresentativo come l’Associazione internazionale dei calciatori professionisti (Fifpro) il sindacato mondiale dei calciatori: su una rosa di 25 atleti ad essere affetti da disturbi mentali, possono essere anche 9 calciatori, in media uno su tre. Lo studio, commissionato dal sindacato mondiale dei calciatori, è stato condotto da un’equipe medica diretta dal dottor Vincent Gouttebarge e dal professor Gino Kerkhoffs dell’Academic Medical Center di Amsterdam, e presentato in occasione della Giornata mondiale della salute mentale. I calciatori professionisti, dai campioni del Real Madrid e Barcellona fino al Psg e al Nizza di Balotelli, coinvolti nello studio dei due medici olandesi, giocano nei massimi campionati di cinque paesi europei: Spagna, Francia, Svezia, Norvegia e Finlandia.

Nel corso dell’ultimo campionato i calciatori, hanno compilato dei questionari in tre periodi distinti della stagione e i dati che vengono fuori sono sorprendenti: dai 3 e 9 calciatori professionisti in una squadra di 25 persone mostrano sintomi di disturbi mentali comuni come stress, ansia o depressione. Il 37% dei giocatori che non ha manifestato alcun sintomo di disturbo mentali nel 2014, ha riportato sintomi di ansia e depressione durante l’ultimo campionato, una percentuale superiore del 26 per cento rispetto alla precedente ricerca. In una squadra di calcio di alto livello con una panchina lunga di venticinque giocatori, un calciatore su cinque soffre di insonnia, mentre il 14% copre i suoi disturbi mentali ricorrendo all’alcol. Nessun calciatore è risultato affetto da disturbi mentali gravi, si tratta di sintomi leggeri, però, sottolineano gli autori della ricerca, se non gestiti in tempo rischiano di degenerare. «I nostri risultati sottolineano che per un club è importante avere uno staff medico con i vari esperti che lavori sulla salute fisica e mentale dei calciatori professionisti», dichiara il dottor Vincent Gouttebarge. Infatti ben l’84% dei calciatori che hanno partecipato alla compilazione del questionario, sottolineano che durante la carriera calcistica non hanno avuto mai a che fare con strutture adeguate che li aiutassero a gestire in maniera corretta i sintomi dei disturbi mentali più comuni, come ansia, stress, depressione, insonnia, abuso di alcol. Si tratta di disturbi mentali che influenzano negativamente le prestazioni in campo dei giocatori, secondo il 95% calciatori oggetto dell’indagine medica. I due terzi dei giocatori professionisti ritengono che tali disturbi abbiano influenzato negativamente l’intera carriera.

LA GUIDA

Di fronte a questo quadro piuttosto preoccupante quali iniziative ha promosso il sindacato mondiale dei calciatori professionisti per fronteggiare la situazione? Ha stampato diecimila copie in quindici lingue diverse, vere e proprie guide che aiutino i calciatori a familiarizzare e non a nascondere il problema: «Questa guida dovrebbe contribuire a convincere i giocatori che i problemi di salute mentale sono comuni, anche nel calcio, e possono davvero mettere in pericolo la salute e la carriera. Sappiamo che questi argomenti per la maggioranza dei calciatori sono un tabù, ma i giocatori non devono sentirsi in imbarazzo nella ricerca di un sostegno», affermano i dirigenti del sindacato, che non sono stupiti dai dati della ricerca, tanto che già l’anno scorso all’assemblea generale, la gran parte delle associazioni nazionali aderenti alla Fifpro, tra le quali l’Associazione italiana calciatori (Aic) guidata da Damiano Tommasi, ex mediano della Roma e della nazionale italiana, aveva posto la necessità di diffondere su larga scala guide sul tema dei disturbi mentali tra i calciatori professionisti.

Buona parte dei disturbi mentali leggeri, che caratterizzano e condizionano negativamente la carriera di alcuni calciatori, si acuiscono particolarmente a fine carriera, quando l’abbandono dell’attività calcistica coincide con l’addio a quel mondo dorato fatto di soldi e fama: «Una delle principali cause dei disturbi mentali – continua il dottor Goutterbarge – è rappresentata dai problemi che i giocatori incontrano dopo aver terminato la loro carriera. Con informazioni su misura, la consulenza personale e l’orientamento professionale, puntiamo a migliorare la salute, la vitalità e la qualità della vita dei calciatori professionisti, che recentemente hanno smesso di giocare a calcio». L’autore della ricerca infatti, in collaborazione con l’associazione dei calciatori olandesi Vvcs e con la Knvb, rispondente alla nostra Federcalcio, ha promosso un progetto sperimentale per riqualificare i calciatori professionisti che hanno terminato la carriera per inserirli nel mondo del lavoro, un progetto per ora circoscritto all’Olanda, ma che se darà buoni risultati sarà fatto proprio dal sindacato mondiale dei calciatori professionisti e promosso su larga scala.

IL SUICIDIO

Emblematica la storia di McGee, calciatore irlandese che esordisce nel 1989 a 21 anni nel massimo campionato con il Galway e si rende protagonista di uno storico gol, che sancisce il pareggio per 2 a 2 della sua squadra in casa dell’Arsenal in una partita di Coppa Uefa, una delle 143 reti che l’attaccante irlandese realizzerà nella sua carriera. Nel 1992 durante una seduta di allenamento si rompe la caviglia e subisce un periodo di stop di circa due anni, dopo il quale l’attaccante torna a giocare, ma non è più lo stesso: «Mi mancava il gioco, il terreno del campo sotto i piedi». McGee è preso da una grave forma depressiva: proprio il giorno dell’incidente la sua squadra aveva concluso il passaggio dell’attaccante al Coventry United e il calciatore irlandese riceveva anche la sua prima convocazione in nazionale, ma a seguito della rottura della caviglia le due grandi occasioni della carriera naufragarono: «Mi sono reso conto che qualcosa non andava, ma non avevo idea di che cosa fosse e neanche che cosa fare. Avevo paura di parlare di questo mio stato psicologico con qualcuno.Non sapevo cosa dire. È davvero difficile. Ero sempre stato un tipo determinato, con le idee chiare, ma a un tratto mi ero reso conto che ero una persona diversa. Non ero più io e non ero felice».

Il centravanti irlandese chiude la carriera calcistica nel 2003, da quel momento deve occuparsi di se stesso, non c’è più la squadra che provvede, deve lui stesso badare alle tasse, all’assicurazione, a fare la spesa, imparare a condurre una vita autonoma. La condizione psicologica depressiva dell’attaccante irlandese peggiora progressivamente fino a quando McGee nel 2010 tenta il suicidio. A salvarlo è un amico, che dopo averlo convinto a farsi curare lo porta in ospedale. Oggi McGee fa l’autista per un’azienda, gioca sui campi di calcio a livello dilettantistico, ha tre figli e ha imparato a gestire alcuni giorni bui della sua vita.