L’ultimo libro di Roberto Calasso è avvincente e angoscioso, talvolta irritante, per quel sottotono cupo-sarcastico che vi traspare: ed è forse colpa del lettore che avverte un dominio della materia che pare non permettere una possibilità di dialettica, soprattutto se le armi usate siano quelle di un illuminato intelletto: la storia sperimenta, le obiurgazioni passano. Si sa, il tout se tient dell’opera-mondo di Calasso nasce qualche decennio fa, il titolo stesso, L’innominabile attuale (Adelphi «Biblioteca», pp. 189, euro 20,00), lo si ritrova isolato e quasi impenetrabile, misteriosofico, tra capitoletti de La rovina di Kasch (Adelphi 1983), uno dei quali così inizia: «La post-storia è abitata da uomini che credono alle “cause”, all’“uomo”, alla “società”, e a tante altre ipostasi, ma è retta da un beffardo soggetto … un perpetuo manipolatore». Oggi, nella nostra società – e post-storia ormai quale Zeitgeist – quel beffardo soggetto è ancor più pericoloso: si è digitalizzato e usa i Big Data.
Anche nella raccolta I quarantanove gradini (Adelphi ’91) il sintagma riappare (p. 194), nominato e riconosciuto da un grande vecchio, amatissimo e pour cause da Calasso, Gottfried Benn. E Benn, presente nell’opus suo fin dagli esordi, ne L’impuro folle, nel suo più illustre alter-ego, il Tolemaico, non è che uno dei numi tutelari chiamati a chiosare un’apodittica «catastrofe», insieme a Nietzsche, ben inteso, e a Simone Weil, a Burckhardt, a Baudelaire e a tanti altri, che capiterà di segnalare.
Ma veniamo al testo precipuo, che si compone di due parti ben distinte, oltre a un epilogo baudelairiano. La prima s’intitola «Turisti e Terroristi» e svolge, con abbaglianti flash, una serrata quanto cortocircuitata analisi, o, meglio, requisitoria del mondo attuale: un mondo frantumato, popolato da zombie, da terroristi e da turisti, da illuministi parodici – progenie degenerata, se possibile, degli Homais, dei Bouvard, dei Pecuchet –, da hacker disposti a tutto, da analogisti infine: l’unica categoria cui sia dispensata una grazia. È il mondo dell’inconsistenza, che ha i suoi prodromi nel «secolo breve» che ci ha preceduto: «Negli anni fra il 1933 e il 1945, il mondo ha compiuto un tentativo di autoannientamento, parzialmente riuscito. Quello che venne dopo era informe, grezzo e strapotente». Oracolare e epidittico, il saggio denuncia irremeabilmente un processo degenerativo, che forse precede il periodo succitato, nasce stabilmente nel pieno Ottocento, quando, a esemplificare, Victor Hugo e Flaubert, in contrapposizione antitetica, rilevano il predominio della società secolare e la sua guaina più conforme, la democrazia, «più che un pensiero, una concatenazione di procedure».
Ma la democrazia, ammirevole e fragile, commenta Calasso, è, come ha detto qualcuno, quel potere in cui «viene esteso a tutti il privilegio di accedere a cose che non sussistono più». Ci si chiede allora, chi è quel «qualcuno»? Ma l’autore stesso, pari pari, ne La rovina di Kasch: «Democrazia: estendere a tutti il privilegio di accedere a cose che non sussistono più» (p. 394). E oggi l’apoftegma recuperato trova un inquietante e sarcastico codicillo: «il vagheggiamento della democrazia diretta non discende ormai da una riflessione politica ma dall’infatuazione informatica». Che sembra valere, purtroppo, non solo per i 5 Stelle, ma per gran parte di un’umanità, già visibilmente coatta. E, di fatto, alla mediazione si è sostituita la disintermediazione, che non è un servizio di mediazione più raffinato, bensì una forma più insidiosa, più subdola di dittatura.
Alle rovine umanistiche degli anni ottanta, nel frattempo, è seguito un disastro di macerie: se l’Homo saecularis ha cancellato il divino sostituendovi di volta in volta altri idoli – dove talvolta riaffiora, come accerta l’acronimo SBNR (spiritual but not religious) –, l’inganno si nasconde in un algoritmo che detta i lumi. La primordiale macchina di Turing si è sviluppata rapidamente fino a creare, in futuro, un robot super-intelligente che leggerà tutto ciò che la razza umana ha scritto: «un orrore che nessun romanzo di fantascienza era riuscito ad evocare: un ammasso sterminato di segni in ogni tipo di alfabeto che vengono letti da un robot e da cui sgorga, come uno sciroppo emolliente, un succo di valori». I paragrafi che concernono il terrorismo islamico, come metamorfosi sacrificale, dove la vittima è l’attentatore, il rigetto di un occidente che ti assale perfino con un’incontenibile pornografia mediatica, e la nascita lontana del fenomeno, dal Veglio della Montagna di Marco Polo all’allarmante Sayyid Quth, impiccato da Sadat e osannato dall’ayatollah Khamenei, sono mirabili per acutezza e perizia; così come quelli sulla mutazione ultima dell’homo sapiens, e poi saecularis, in turista, categoria non più connessa al viaggiare bensì alla realtà virtuale. Dispiace non potersi soffermare di più su osservazioni e congetture così cruciali, così intriganti e, oserei dire, anche venate di un retrogusto hilaro-tragico, ma occorre accennare alla seconda parte, che è il pozzo di rifornimento della prima e ha un titolo sintomatico, «La Società Viennese del Gas», caustico e ironico, nel ricordo dolente di Walter Benjamin.
Consta, questa parte, di un diorama di citazioni, autori e avvenimenti dalla nascita del nazismo alla fine della guerra, florilegio poliedrico e coltissimo che serve a corroborare e, in qualche modo, a inverare il discorso che precede: ci sono tutti i numi tutelari e gli exempla ficta, in negativo e positivo. Ne isolo uno, che a Calasso credo non stia molto simpatico, André Gide, più volte citato: una prima, per la sua adesione al comunismo, come si sa subito rinnegata dopo il famoso Retour; un’altra volta riportando un brano del Diario di ambigua e giustificatoria comprensione del nazismo e dello stalinismo. In realtà il chiaro disorientamento, in quel periodo, di Gide è anche parte costante della sua etica: il continuo tentativo di comprendere le ragioni dell’altro; così come, negli anni trenta, i flirt col comunismo nascono da lontano, sono paritetici ai suoi perenni deliri evangelici, trasfigurati in nutrimenti, terrestri e non. Resta il fatto che, nella disfatta anche intellettuale della Francia invasa e subito pétainiste, Gide rimase uno dei pochi a non cedere a lusinghe di sorta e a rifiutare incarichi, preferendo rifugiarsi in Algeria e in Tunisia. Ma il secolarismo inquieto e ondivago dell’intellettuale francese più rappresentativo di quell’epoca, così come il suo tortuoso raziocinio, a Calasso non dispiaceva certo coglierli in difetto, palesando in tal modo la propria scoperta partigianeria. Un suo aspetto, questo, curiosamente assai simpatico, quasi affabile: l’intelligenza non stinge in avversione, anche quando ci si aspetterebbero segnali di affinità: il sacro è ciò che Gide ha perennemente e nostalgicamente ricercato nel suo tempo già desacralizzato.
Il libro ha una chiusa volutamente concisa, sorniona, che lascia letterariamente felici, soddisfatti: il suaccennato profetico sogno di Baudelaire di una torre che crolla. Di un altro sogno aveva parlato Calasso nello splendido saggio al poeta dedicato (La folie Baudelaire, 2008), per niente premonitore, e molto decadente. Del resto, visionarietà e décadence sono il contraltare agli ideali perspicui del secolo saecularis, che Baudelaire non amava e in cui ha mal vissuto. Non si può dire così del suo interprete. Calasso non ammette contraddizione, né può: il saggio procede per acquisizioni certe e certificate, suscitando tuttavia ammirazione, sgomento, e infine il grande piacere della lettura. Ma se fosse possibile trasformarlo in dialogo, aggiungervi un agguerrito interlocutore, altro non verrebbe in mente se non una celebre disputa, enormemente aggiornata: quella che avviene, ne La montagna magica di Thomas Mann, tra il progressista Settembrini e il gesuita conservatore Naphta.