«La ‘ndrangheta in questa regione controlla tutto, quindi attività del genere non potevano sfuggire. Anche perché in Calabria la raccolta e lo smaltimento rifiuti sono stati gestiti per anni in regime di emergenza e ciò ha garantito controlli nella migliore delle ipotesi più blandi». È categorico Federico Cafiero De Raho, procuratore capo di Reggio Calabria (e probabile futuro capo della Dna), nel commentare l’inchiesta Metauros che ha scoperchiato il calderone di politica e imprenditoria dentro cui sguazzavano i Piromalli di Gioia Tauro.

Sotto il gran mantello dell’emergenza rifiuti, la signoria mafiosa della Piana per anni ha bivaccato e lucrato con la complicità di istituzioni e imprenditori, mettendo anche a rischio la salute pubblica. «Abbiamo scoperto – spiega Cafiero de Raho – che i fanghi industriali che dovevano essere smaltiti venivano venduti a imprese compiacenti che li trasformavano in fertilizzanti. Si tratta di un’operazione estremamente pericolosa per la salute pubblica, le cui ricadute sono ancora in via di valutazione».

Per anni, secondo gli investigatori, i Piromalli avrebbero avuto il controllo totale di due impianti. Grazie a ditte compiacenti, su ogni singola operazione, il clan sarebbe riuscito a imporre la propria personalissima “gabella” sul termovalorizzatore. Il sistema era semplice, lo stesso già accertato in ogni inchiesta che abbia riguardato la gestione del ciclo dei rifiuti. Ditte compiacenti emettevano una serie di sovrafatturazioni o fatturazioni per operazioni inesistenti che permettevano loro di versare la quota imposta al clan, senza perdere un euro di guadagno.

Un meccanismo, dagli introiti milionari, che per anni ha permesso di smaltire senza differenziare la maggior parte degli scarti prodotti. Medesima “regola” vigeva alla Iam, la società che a Gioia Tauro, nel bel mezzo di uno dei più grandi porti del Sud, si occupa della depurazione delle acque. Si confermano e si rafforzano, così, le tesi dei comitati territoriali che da venti anni vanno dicendo che l’oro di Calabria si chiama spazzatura e il business dei rifiuti si declina alla voce emergenza, seminando sprechi e facendo vincere «i signori della monnezza». E non importa se si aprono e chiudono inchieste giudiziarie sulle società di raccolta,  se le discariche sono sature e le opere non terminate. Non importa se si è speso un miliardo di euro in sedici anni di commissariamento ministeriale (due milioni solo per pagare gli stipendi di dirigenti e segreterie).

Nelle sabbie mobili di questo sistema paludoso può accadere così che i Piromalli gestiscano impunemente per anni lo smaltimento rifiuti e la depurazione delle acque. È questo il dato sconcertante che emerge dall’operazione che ha portato al fermo di 7 persone accusate a vario titolo di associazione mafiosa, concorso esterno, intestazione fittizia di beni e traffico organizzato di rifiuti. Sono stati loro – precisa la Dda – a permettere alla ‘ndrina di metter le mani sull’unico termovalorizzatore calabrese e sulla Iam.

In manette è finito l’ex sindaco di Villa San Giovanni, Rocco La Valle, patron della ditta di famiglia che si occupava dei trasporti su gomma, considerato «collettore» delle tangenti e unico interlocutore delle cosche «beneficiarie» delle estorsioni imposte alle società che hanno gestito nel corso del tempo il termovalorizzatore. Ma fra i fermati c’è anche Giuseppe Luppino, presidente del cda di Piana Ambiente Spa nonché consulente esterno dell’ufficio legale del commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Calabria, considerato dagli inquirenti il politico di riferimento dei Piromalli. Era lui – hanno svelato le indagini – a dirottare i rifiuti su Gioia Tauro grazie alla complicità dell’impresa dei fratelli Giuseppe, Domenico e Paolo Pisano, anche loro fermati. Tutti uomini – dicono i magistrati – al servizio dell’avvocato Gioacchino Piromalli, considerato il regista dell’infiltrazione nelle attività del termovalorizzatore, già condannato per associazione mafiosa nel processo Porto. E ieri rispedito nuovamente in carcere.