«Io non sono un esperto nel campo dell’utopia», diceva Corrado Cagli (Ancona 1910-Roma 1976) rispondendo nel 1968 a una intervista per la rubrica televisiva «Cronaca dei partiti» interrogato sul rapporto fra intellettuali e mondo politico: per avere una risposta, diceva, sarebbe stato necessario ricorrere a Thomas Moore o al suo prediletto Erasmo da Rotterdam. Si presenta così l’artista al visitatore della nutrita rassegna Corrado Cagli Folgorazioni e mutazioni, curata da Bruno Corà con la collaborazione di Giuseppe Briguglio per la Fondazione Terzo Pilastro di Emmanuele F. Emanuele a Palazzo Cipolla a Roma (fino al 6 gennaio).
È l’occasione a lungo attesa di apprezzare nuovamente una delle figure più enigmatiche e anticanoniche del Novecento italiano, oggetto di un inedito ritorno di interesse da parte degli studi – dal libro fondamentale sull’esilio americano 1938-’47, di Raffaele Bedarida (Donzelli 2018), a quello di Sergio Cortesini sulla fortuna dell’arte italiana in America fra le due guerre (Johan & Levi 2018) –, prima assestati sul fondativo e storicizzato contributo di Enrico Crispolti e sulle mostre di Fabio Benzi. Ne è emerso un profilo inquieto, vittima dei ricorsi della storia e al centro di un paradosso tutto italiano: in fuga alla promulgazione delle leggi razziali, in prima linea nello sbarco in Normandia, ma già figura centrale nel dibattito degli anni trenta e artista di punta, pur ebreo e omosessuale, del «made in Italy» d’esportazione da parte del regime.
Appaiato a Lucio Fontana
Tacciato a volte di eclettismo per un’inventiva incontenibile che lo portava a sviluppare in parallelo più filoni di ricerca – come del resto Lucio Fontana, a cui Crispolti lo aveva appaiato in una cruciale mostra aquilana di omaggio del 1963 –, è indubbio che la sua lezione ha avuto un ruolo seminale per molti artisti talvolta persino più anziani di lui: già negli anni trenta, riconoscerà Guttuso, Cagli aveva dato una scossa al torpore classicista; dopo il movimentato soggiorno americano, poi, al suo ritorno a Roma, conterà non poco nel riallineamento dei gruppi, quando la sua idea di «primordio» sarà declinata da altri (e suo malgrado) come «origine» delle arti visive. Sarebbe tuttavia riduttivo insistere, come talvolta capita nelle pagine del corposo catalogo (Silvana Editoriale), sul ruolo di Cagli come precursore, se non si insistesse al contempo sul suo sofisticatissimo profilo intellettuale, da affrontare con gli strumenti dell’iconologia, di cui dà riscontro il confronto ampio e irripetibile con le opere, disseminate spesso di allusioni su più registri. Sono eloquenti persino i formati dei quadri, che ricalcano quelli canonici della storia della pittura: orizzontali e di medie dimensioni le nature morte, grandi e verticali i dipinti di figura, e poco importa se Santi, Sibille e cortigiani hanno lasciato il posto al ritratto del pittore Gregorio Prieto o, ancor più, ai numerosi ritratti dello scultore Mirko Basaldella, suo cognato, nelle vesti di Erasmo o di Davide, o di musicante nudo, ancora tutti da decriptare.
Non deve essere un caso nemmeno che per i Neofiti del 1934 – uno dei quadri più enigmatici del primo periodo, con le tre figure ricalcate sull’iconografia del Battesimo (da Piero al cartoccio cubista del giovane che sveste il saio) intorno a una sorgente in mezzo a un deserto roccioso –, Cagli sia ricorso a un quadrato di medio formato avvicinabile a quello delle «allegorie» erudite rinascimentali (Giorgione e Lotto), come a voler rinnovare i modi di una pittura iniziatica, da studiolo umanistico, decifrabile indagando più a fondo fra gli scaffali della biblioteca dell’artista, senza accontentarsi di registrare la lettura da parte sua di Erasmo o di Jung, o di suo zio Massimo Bontempelli, ma risalendo alle edizioni e traduzioni che ha avuto effettivamente fra le mani e al significato ideologico di certe letture in precisi frangenti storici: arduo altrimenti districarsi in un uso disinvolto, talvolta persino derisorio, delle fonti letterarie e visive, dai «primitivi» italiani al Seicento classico ai fasti dell’archeologia, dalla citazione alla «traduzione» di effetti grafici e luministici del disegno e della pittura.
Non si può fare a meno di constatare il tono ironico del Santone (1928-’29), in ceramica dipinta in «nero fratta» per la manifattura Rometti di Umbertide, con l’aureola incollata alla nuca come una scodella e la fisionomia al limite della caricatura, che sembra prelevata dall’«Assiette au beurre»: sono gli stessi anni in cui l’artista «tira giù» i daci e i romani dalla Colonna Traiana per farli guerreggiare in piccoli quadri di genere. Ma colpisce anche il senso di una consapevole messa in scena che gioca con gli stessi statuti del dispositivo pittorico in altri quadri di criptico significato allegorico, dal Neofita de 1933, di esplicita carica omoerotica, al coevo e non meno enigmatico Edipo a Tebe.
Come un pittore greco, Cagli distingue fra l’incarnato chiaro dei nudi femminili e quello abbronzato degli uomini, ma pur rispettando la convenzione ricorre poi ad anatomie longilinee estranee al canone eroico dell’arte monumentale, in un gioco specchiante di dissimulazioni. Allo stesso tempo ci si accorge con un senso di spaesamento che i due nudi del Neofita sono schiacciati su un palco stretto, proiettando ombre ravvicinate sulla parete di fondo, e che il giovane che riceve l’iniziato prostrato ai suoi piedi sta seduto su uno sgabello a malapena celato da un lenzuolo d’occasione: prove tecniche, si direbbe, di una recita da inscenare, svolte in una luce canicolare che appiattisce i volumi, li semplifica secondo norme classiche (il torace compatto del giovane seduto con un’accentuata piega sul ventre presa a prestito da Mirone) e li consegna all’occhio indiscreto e ravvicinato dell’osservatore fuori campo. E sono troppo basse le case cubiche che fanno da scenografia all’arrivo di Edipo, spaesata apparizione appena giunta in scena da una quinta posticcia. Si è tentati di chiedersi, a questo punto, cosa sarebbe accaduto se Cagli fosse vissuto più a lungo, assistendo ai «ritorni» alla pittura degli anni ottanta: il suo monumentale Apollo e Dafne del 1957, affusolato e tornito come Guido Reni ma immerso in un’umida foresta primordiale e fantasmatica, avrebbe avuto ancora molto da dire.
I grandi cicli «surrealisti»
È nel dopoguerra, tuttavia, che l’eclettismo di Cagli si sprigiona in grandi cicli che vivificano la lezione surrealista: dalla mimesi della pittura a spruzzo ai modi improntuali, fino alla reiterazione modulare, il rituale ha assunto una sfumatura antropologica, conquistando una grande libertà di modi e di ornamento, giocando sullo stupore di una pittura impalpabile, che ha annullato il segno della mano ma ha dato all’immagine un rilievo tattile.
Il sodalizio col matematico Paul Samuel Donchian, che gli fa scoprire la geometria proiettiva, offre un’indicazione di lettura da non intendersi a senso unico. Ancora una volta, quando Cagli cita esplicitamente una fonte, dalla Metafisica dechirichiana reinventata alle forme organiche del Surrealismo storico, mentre la manipola la depone dal piedistallo del mito: sono quelli i nuovi «antichi maestri» con cui si misurano gli artisti del dopoguerra, senza timore di ripensare le strutture in metallo di Picasso o i suoi disegni ispirati a Balzac voluti da Vollard. «Il segno del tempo», aveva scritto Marchiori nel 1959, «è nelle prigioni e negli inferni che egli ha dipinto nel viaggio attraverso i prodigi dell’inconscio o le apparizioni della memoria».